di Luciano Assin
Com’è noto Yom haShoah è il giorno in cui ogni anno, dal 1959, in Israele si ricorda la Shoah, le atrocità commesse dai nazisti e le vittime di quelle atrocità.Le ventiquattro ore della commemorazione sono così intense sul piano emotivo, che non pochi, da qualche anno a questa parte, hanno cominciato a chiedersi se sia questo effettivamente il modo migliore per perpetrare la memoria della Shoah, e se invece non sia venuto il momento di cercare delle alternative alla formula odierna – la sirena suonata per un minuto e il blocco totale di ogni attività, la lettura dei nomi delle vittime.
Si calcola che in Israele vivano ancora oltre 190 mila sopravvissuti alla Shoah, una cifra destinata a ridursi quasi completamente entro il 2025. Mentre la questione su quale sia la maniera migliore per tenere vivo il ricordo e’ compito del governo e delle istituzioni esistono dei fenomeni che pur essendo ancora sporadici e limitati nel loro numero portano con sé un messaggio profondo sul quale vale la pena di riflettere.
Un servizio televisivo trasmesso nel 2013 ha portato a galla una nuova realtà che lentamente sta prendendo forma e vitalità: figli e nipoti di sopravvissuti si fanno tatuare sul loro braccio il numero dei propri genitori o nonni. Dei 400mila “numeri” tatuati ad Auschwitz ne sono rimasti in vita poche migliaia; è forse il tatuaggio il modo migliore per perpetuarne la memoria, almeno nella cerchia familiare?
Fatto sta che quello che fino a qualche decennio fa, veniva considerato come un segno d’infamia del quale liberarsi il piu’ presto possible, e’ diventato per molti il simbolo del riscatto e della speranza. Shay Gal, il giornalista autore del servizio, ha intervistato alcuni figli e nipoti cercando di capire le motivazioni di un tale gesto. Tutte le testimonianze concordano sul fatto che la decisione di compiere un tale gesto sia stata il risultato di una lunga e ponderata gestazione – in fin dei conti non e’ una cosa cosi semplice andare in giro con un numero che inevitabilmente si porta dietro interrogativi e provocazioni. Per gli intervistati comunque l’incognita principale da affrontare era la reazione degli interessati. Quasi nessuno ha avuto il coraggio di mostrare subito il proprio tatuaggio; e c’e’ chi ha aspettato oltre un anno prima di mostrarlo ai propri nonni. In effetti le reazioni, almeno all’inizio, non sono state incoraggianti.
“Auschwitz per me è un peso dal quale non potrò mai liberarmi; perché una simile sensazione deve passare anche a mio nipote?”. E’ questa forse la domanda che meglio rappresenta e riassume le reazioni dei sopravvissuti alla decisione di figli e nipoti di “tramandare” sul proprio corpo il numero che i nazisti avevano sostituito al loro nome proprio, alla loro identità.
D’altra parte dopo una prima reazione di scetticismo e di stupore il tatuaggio e’ stato accettato per quello che principalmente e’: una grossa prova di amore nei loro confronti. Chi ha scelto di farsi tatuare uno di questi numeri ha deciso di impegnarsi in un compito gravoso che lo accompagnerà per tutta la sua vita: diventare lui stesso un testimone vivente di ciò che è stato.