di Paolo Salom
[Voci dal lontano occidente] È passato un anno. Tempo di bilanci? Temo che sia ancora presto. Molte cose sono cambiate dalla terribile strage del 7 ottobre. Ma quella soluzione che tutti sogniamo, il ritorno della calma nel Sud e nel Nord di Israele, la restituzione degli ostaggi ancora nei cunicoli di Hamas, è ancora fuori portata.
Sia chiaro: non è per volontà dello Stato ebraico che non è stato (almeno mentre scriviamo queste righe) ancora raggiunto un accordo. La responsabilità di questa atroce situazione è tutta dei fanatici integralisti che obbediscono agli ordini di Sinwar. E tuttavia, non soltanto in Israele, il protrarsi di questa tragedia alimenta divisioni e attribuzioni di responsabilità. Sono reazioni umane. Comprensibili. In particolare per chi è direttamente colpito, magari perché persone vicine sono tra i rapiti del 7 ottobre. Eppure, per quanto cinico possa sembrare, occorre ragionare con animo freddo a proposito di questo conflitto che è parte di una contrapposizione internazionale ben più vasta, ramificata e difficile da sciogliere. Israele sta combattendo una guerra insidiosa, contro più nemici e su più fronti, che ancora deve vedere una svolta.
Il punto più difficile da tollerare, in tutto questo, a parte i sacrifici della popolazione israeliana (quanti non sono ancora potuti tornare nelle proprie case?), è, a parer mio, l’atteggiamento del lontano Occidente che, dopo una minima manifestazione di solidarietà, da dodici mesi si danna per “convincere” il governo di Gerusalemme a “terminare la guerra” e “smettere di infliggere sofferenze alla popolazione palestinese innocente”.
Ve lo immaginate cosa avrebbero risposto americani e britannici (e pure i francesi di de Gaulle) se qualcuno avesse loro detto: “Suvvia, quante sofferenze state infliggendo ai tedeschi e ai giapponesi: trovate un accordo!”…? E invece, come una litania sorda alla realtà e alla logica, questo è quanto accade nei confronti dello Stato ebraico. Dodici mesi di “consigli”, talvolta diktat (soprattutto dagli Stati Uniti) e un’infinita corrente di ipocrisia dai vertici dell’Europa. Un esempio recente: al Forum di Cernobbio, tradizionale riunione tra chi conta nel mondo, dove in passato personaggi come Shimon Peres e altri statisti israeliani erano di casa, è stata invitata la regina Rania di Giordania. Come sapete, la consorte di re Abdallah è di origine palestinese: così, senza alcun contraddittorio (nessun nome da Gerusalemme), ha potuto sollecitare l’audience sulla necessità di “porre fine al razzismo anti palestinese”; e ancora ha sottolineato come “non ci può essere sicurezza senza pace”, dove il responsabile dell’assenza di pace era naturalmente Israele.
Eccoci al punto. Per la gran parte del mondo, la crisi mediorientale ha una sola causa, lo Stato ebraico. E gli effetti che questa crisi riversa sugli altri Paesi – non ultimo l’antisemitismo che ha rialzato ovunque la testa – sono dunque da ascrivere alla testardaggine dei vari Netanyahu e compagnia. Vi rendete conto? Purtroppo anche molti israeliani ritengono che la bacchetta magica sia nelle mani di singoli uomini di governo e che il non volerla usare sia la ragione per cui non torna la tranquillità. Non è così. Questa guerra non è stata voluta da Israele. L’ho già scritto e lo ripeto: è stata scatenata da terroristi senza scrupoli o sentimenti umani, con l’unico scopo (è il loro progetto) di scardinare pezzo a pezzo quanto costruito dagli ebrei in Terra di Israele. Persino all’Onu, dove conta anche se non soprattutto la volontà di Paesi illiberali e fanatici, sembra in corso una gara a chi delegittima di più l’unico Stato ebraico al mondo. Questa è la situazione. Ma noi dobbiamo fare il possibile per contrastarla. Per quanto difficile, sono convinto che abbiamo in noi tutte le carte e la volontà per non farci travolgere. Israele è sotto attacco. Gli ebrei nel mondo sono nell’occhio del ciclone. Ma, con la consapevolezza che è necessario non perdere speranza e solidarietà, restiamo forti e determinati al fianco di Israele.