di Paolo Salom
[Voci dal lontano Occidente] Ci risiamo. Israele è di nuovo nel mirino (ma ne è mai uscito?) delle cosiddette organizzazioni umanitarie internazionali. Questa volta a puntare il dito accusatorio sull’unica democrazia del Medio Oriente è Amnesty International, un tempo considerata un coraggioso baluardo contro i soprusi delle tirannie verso i propri cittadini. Nel loro ultimo rapporto, i ricercatori di Amnesty si dilungano per ben 278 pagine pur di dimostrare che in Israele vige “un Apartheid di fatto”. Avete capito bene: l’accusa (l’ennesima) contro lo Stato ebraico è quella, infamante, di “Apartheid”.
Per chiarire: questa parola inventata in Sudafrica per giustificare la “separazione delle razze” – bianchi, neri e colored – e finita nel cestino della Storia con la concessione del voto a tutti i cittadini agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, è un simbolo potente della volontà di dominio dell’uomo sull’uomo. Dominio esercitato “a buon diritto” (infatti era regolato da leggi specifiche e da norme che prevedevano panchine e bagni separati per bianchi e neri), che nel tempo si è trasformato in un vademecum della superiorità relativa degli esseri umani a seconda del colore della loro pelle.
Il Sudafrica non è stata l’unica nazione a inventare regole basate sulla razza. Come è noto, anche negli Stati Uniti, in particolare nel Sud, fino agli anni Sessanta era in vigore la “segregazione”, ovvero la stessa identica normativa che costringeva gli afroamericani a una vita da cittadini di serie B (se non peggio). Ancora oggi la questione razziale infiamma di quando in quando la vita di quel Paese che, per quanto esempio di democrazia per tutto il mondo, non manca di vivere gravi contraddizioni e ingiustizie sociali.
Ed eccoci a Israele. Merita l’accusa di praticare un Apartheid di fatto? Nel lontano Occidente la risposta sembra essere scontata, a giudicare dall’aumento delle manifestazioni di odio anti ebraico (l’Italia non ne è purtroppo esente) che rendono la vita comunitaria sempre più precaria. Ora, la verità – tocca ribadirla – è questa: Israele è una democrazia, non un regime. I cittadini – tutti i cittadini – sono uguali davanti alla legge. Arabi e non arabi. Ebrei, musulmani e cristiani. Questo è un fatto, facilmente osservabile, della vita quotidiana in Eretz Israel. Ma Amnesty, quando si tratta di Israele, non si occupa dei fatti. Piuttosto cerca risposte a tesi che vengono considerate valide in partenza. E, per giustificare i propri voli pindarici, esamina la situazione di arabi palestinesi e “coloni” israeliani nei Territori (ovvero in Giudea e Samaria).
Siamo chiari: vivere da palestinese nei Territori non è cosa facile. La realtà dei posti di blocco, se giudicata senza alcun riferimento storico, è difficile da digerire. Ma è questo il punto: Gerusalemme non ha occupato quelle regioni (per quanto parte della Terra d’Israele) per “dominare” un’altra popolazione. Lo ha fatto perché minacciato nella sua esistenza dagli Stati arabi vicini: non c’era alternativa. Le condizioni di vita dei palestinesi sono peggiorate nel tempo? Sì, certo. Ma non perché gli israeliani si divertano a mantenere un controllo asfissiante di quelle aree (che, ricordiamo, da trent’anni sono governate dall’Anp), piuttosto per evitare uno stillicidio di attentati che hanno provocato lutti e dolore in migliaia di famiglie. Dunque non è Apartheid, non è questione di colore della pelle. Semplicemente, in una situazione eccezionale, Israele adotta tutti i mezzi legittimi per difendere i propri cittadini.
Quanto a Israele propria e alla sua legge sullo Stato-nazione, altro esempio negativo citato da Amnesty nel suo vergognoso libello, possiamo soltanto ribadire che tale definizione è assolutamente lecita e, anzi, necessaria, considerato quanto sta accadendo nel mondo. Dire che Israele è uno Stato ebraico è una tautologia. E dopo tutto, Israele è circondata da Repubbliche arabe (Egitto, Siria ecc), per le quali nessuno si è mai sognato di sollevare una critica. Due pesi e due misure?
La verità, tutto considerato, è questa: Amnesty International, per ragioni che solo i suoi dirigenti possono conoscere, ha deciso di accodarsi alla campagna internazionale di delegittimazione dello Stato ebraico, visto – ancora oggi! – come “un errore” a partire da larghi settori delle stesse Nazioni Unite. Sappiamo come possono finire queste vicende. Dunque, è bene essere consapevoli e determinati: non riusciranno nel loro intento, non importa quali bugie raccontino.
Am Israel chai.