di Paolo Salom
[voci dal lontano occidente]Nel lontano Occidente l’antisemitismo è talmente radicato – consapevolmente o meno – nella coscienza comune che, qualche volta, persino alcuni ebrei, nati e cresciuti nella diaspora, lo interpretano come un fenomeno “giustificato” da un’interazione tra le due culture. In altre parole, c’è tra noi chi dice: “Se ci odiano da duemila anni, un motivo dovrà pur esserci”. Ora, una premessa: non è mia intenzione sollevare polemiche o lanciare accuse di qualunque tipo. Il mio interesse riguardo questo fenomeno è dato soltanto da un fatto: ci può aiutare a capire meglio l’intima perversione dell’antisemitismo e il pericolo che si annida ancora in Occidente settant’anni dopo la Shoah.
Perché, e certo non sto rivelando nulla di nuovo, è fondamentale per noi ebrei comprendere come la nostra identità non sia un ostacolo, un “problema” che possa in qualche modo disturbare lo scambio con l’ambiente umano in cui ci troviamo. Per intenderci, l’antisemitismo non ha alcuna relazione con chi siamo o con ciò che facciamo. Non dipende da tratti caratteriali o abitudini di vita viste come “offensive” dai nostri vicini. Sia chiaro, possono pure esistere ebrei maleducati o, peggio, capaci di infrangere la legge. Ma il punto non è questo. Fatta la tara agli stereotipi che circondano più o meno qualunque gruppo umano, la verità è che l’antisemitismo vive di vita propria e affonda la sua genesi nella storia religiosa cristiana: fatto che persino la Chiesa ha riconosciuto, tanto che il Concilio Vaticano II ha emendato il catechismo per “ripulirlo” dei tratti più antigiudaici.
Non solo: l’antisemitismo prospera anche in assenza di ebrei. Ci sono Paesi dove questo sentimento resta tenace nonostante la sparizione della quasi totalità delle comunità ebraiche: basti pensare al caso della Polonia e alle persecuzioni durante il regime comunista di Varsavia alla fine del 1968. Dunque, perché si arriva al punto da interrogarci su noi stessi di fronte all’ostilità in crescita verso gli ebrei e, soprattutto, Israele? La risposta non è semplice. Ma è nostro dovere provare a darla. Intanto perché è assolutamente comprensibile che episodi sempre più frequenti, l’atteggiamento ostile di chi non ha più remore nel manifestare il proprio sentimento siano causa di profondo disagio e provochino ferite morali dolorose. Ed è altrettanto comprensibile che qualcuno veda come possibile via di fuga da tutto ciò il “giustificare” l’atteggiamento antisemita come (almeno in parte) prodotto di un proprio comportamento – o meglio, dell’azione di ebrei o israeliani “intransigenti”, nel presente o nel passato. Espediente che aiuta nell’immediato. Ma certo non ha potere di risolvere il dilemma.
Perché lo stigma dell’antisemitismo, creato nei secoli consapevolmente (Bompiani ha appena ripubblicato la Breve storia della questione antisemita, di Roberto Finzi: ne consiglio a tutti la lettura), è ormai come un virus silente che alberga permanentemente nell’animo di chi vive nel lontano Occidente e, quando le difese naturali si allentano, riprende forza e si propaga come un’epidemia. Dunque, che fare? Nulla se non rimanere fedeli a noi stessi, nella consapevolezza che, per la prima volta in duemila anni, esiste per noi una patria pronta ad accoglierci a braccia aperte, una patria che si chiama Israele.