Cinquant’anni dopo, la lezione Golda Meir è sempre attuale. Ma molte cose sono cambiate (in meglio)

Taccuino

di Paolo Salom

[Voci dal lontano Occidente] Di recente ho rivisto su YouTube un’intervista rilasciata da Golda Meir alla Bbc nel 1970, ovvero esattamente mezzo secolo fa.

Il mondo allora era ben diverso da quello di oggi: diviso in due blocchi, con l’America impegnata ancora in Vietnam e l’Europa all’alba della lunga e sanguinosa stagione del terrorismo. Sapete che cosa era identico ai nostri giorni? Quello che si diceva e si chiedeva a Israele “in nome della pace”. E Golda? La favolosa Golda? Le sue risposte, allora, potrebbero essere ribadite, parola per parola, per chiarire come mai non esista ancora un trattato in tal senso tra lo Stato ebraico e gli arabi-palestinesi. Nel 1970 Israele era impegnato su più fronti. Da una parte la terribile guerra di attrito con l’Egitto lungo il Canale di Suez, dove erano arrivati i soldati di Tsahal nel corso della Guerra dei Sei Giorni, tre anni prima. Dall’altra le continue incursioni dei fedayin, i lanci di missili contro i kibbutz, gli spaventosi attentati terroristici. Che cosa chiedeva l’Europa – il mondo! – a Israele? Di dare un segno di “buona volontà” in nome della pace. Quale? Al di là di un ritiro unilaterale dai territori occupati in battaglia (difensiva), non era chiaro allora come non lo è oggi. Ma la risposta di Golda Meir, primo ministro di Israele, potrebbe essere ripetuta di nuovo senza cambiare una parola: “Il mondo ci chiede di ritornare ai confini del 1967, quelli di prima della guerra, per avere la pace. Ma c’era forse la pace, prima? Noi comunque siamo pronti a sederci con gli arabi a un tavolo per negoziare, senza precondizioni. Finora la loro risposta è sempre stata univoca: no”.
Oggi, è vero, Israele è in pace con due Stati arabi, Egitto e Giordania, ai quali sono stati restituiti territori e garantiti dividendi ingenti (l’Egitto riceve, in seguito alla firma del trattato del 1979 con Gerusalemme, finanziamenti annuali dagli Stati Uniti; la Giordania, tra gli altri vantaggi, in seguito all’intesa del 1994, può attingere a costi calmierati alle riserve di acqua dolce di Israele). Peccato che allo Stato ebraico ritorni pochissimo in cambio, certamente non la “normalizzazione” dei rapporti economici, culturali, umani come sarebbe immaginabile tra Paesi non più nemici. Anche se ovviamente una pace fredda, se non gelida, è preferibile a qualunque guerra. Ma, posto che questa pace “invernale” e aggressiva è comunque benvenuta, la questione palestinese è rimasta irrisolta, proprio come cinquant’anni fa, sepolta – dopo l’illusione di Oslo – dal rifiuto di trattare da parte degli eredi di Arafat e, soprattutto, dal sangue, tanto sangue versato in seguito agli attacchi kamikaze, allo stillicidio di missili e alle inevitabili guerre che Tsahal ha dovuto affrontare per ristabilire un minimo di deterrenza.
Una lunga premessa per ritrovarci in questo anno 2020-5780 senza alcun vero cambiamento, una concreta speranza che il futuro possa riservare una vita migliore in Eretz Israel. Però: se ci soffermiamo sui contorni degli avvenimenti degli ultimi cinquant’anni possiamo scoprire come in realtà molte cose siano nel frattempo cambiate, nonostante tutto. Israele non è più un piccolo Stato stretto nei “confini di Auschwitz” (copyright: Abba Eban); è una discreta Potenza regionale; è una superpotenza tecnologica; è il punto di riferimento per l’ebraismo mondiale; è in via di accettazione da parte di diversi Stati musulmani vicini e lontani. Insomma, è una realtà vitale, produttiva, feconda che attira capitali e ingegni. Mica male per un Paese rinato dopo quasi duemila anni di esilio e giunto da poco al 72esimo compleanno. A questo punto è arrivato il momento di invertire i termini della questione: forse sono altri che dovrebbero immaginare un gesto di buona volontà in nome della pace. Israele è sempre pronta a tendere la mano.