Durante la guerra tra Hamas e Israele, è esplosa la caccia all’ebreo a Londra, New York, Parigi, Berlino: la difesa è restare uniti

di Paolo Salom

[Voci dal lontano occidente] Quante cose sono accadute nell’ultimo mese. Persino una guerra – per fortuna breve – tra Israele e Hamas. Curiosa questa giustapposizione, Israele e Hamas: da una parte uno Stato organizzato e funzionante, dotato di un esercito e una catena di comando efficiente e guidato da una dirittura morale che non ha pari nel mondo. Dall’altra un gruppo di terroristi armati e sponsorizzati dall’Iran senza il minimo scrupolo per la vita umana, sia dei “nemici” sia dei propri civili. Facile, per una persona informata, capire quale parte sostenere, per chi trepidare, a chi dare solidarietà. C’è un aggressore (Hamas) e un aggredito (Israele). Impossibile avere dubbi. O no?

E qui arriviamo al tema di questa rubrica. Che è duplice, interconnesso e, francamente, disperante. Perché come in passato, ma con una virulenza mai vista, il lontano Occidente – dall’Europa agli Stati Uniti – si è scagliato contro Israele e contro gli ebrei della Golah con accuse, attacchi, ingiurie che hanno riportato il mondo agli anni Trenta, quando portare kippah e tzitzit esponeva al rischio concreto di essere assaliti per la strada. L’altro aspetto del problema, non meno serio, è la divisione che si è manifestata al nostro interno, proprio nel momento in cui la solidarietà di Am Israel era più che mai indispensabile. Invece, un gruppo di ebrei, non solo italiani, ha pensato bene di uscire allo scoperto criticando aspramente la condotta bellica di Tsahal. Un terzo aspetto è il ruolo dei media, per primo il New York Times che ha pubblicato una vergognosa prima pagina con le foto dei bambini che sarebbero stati uccisi nel conflitto, da Israele naturalmente, senza avere la cura di controllare volti, nomi e fatti (così avrebbero scoperto che per la maggior parte si trattava di terroristi in armi, giovani morti per colpa dei razzi di Hamas e altri completamente inventati).

Ora, partiamo dal primo punto: il riemergere dell’antisemitismo “fisico”. In altre parole: le violenze non solo verbali nei confronti degli ebrei, spesso andati a cercare nei loro quartieri a Londra, New York, Los Angeles, Parigi, Berlino e sì, anche Milano. Vero: spesso i protagonisti delle aggressioni erano arabi/musulmani (non necessariamente palestinesi) che non hanno mai avuto scrupoli a minacciare fisicamente quelli che loro considerano “nemici” a prescindere dalla nazionalità. Ma quel che conta in questo frangente è la blanda risposta delle autorità e dell’opinione pubblica. Un solo esempio: a una studentessa (non ebrea) aggredita in metropolitana, a Vienna, perché stava leggendo un libro sulla storia degli ebrei, la polizia ha replicato (senza percepire il tragicomico delle proprie affermazioni): “Perché mai ti metti a leggere in pubblico un libro del genere in un momento di conflitto come questo?”. E ancora: “Non sei ebrea? Allora non è antisemitismo”.

Che cosa ha permesso, nella prima metà del Novecento, l’emergere del nazismo e la riuscita del progetto di sterminio degli ebrei in Europa? L’indifferenza/compiacenza – non sempre ma nella maggioranza dei casi – di autorità e opinione pubblica, allora certamente meno interconnessa ma comunque sensibile alla propaganda secolare antiebraica. Ed eccoci al secondo punto, strettamente legato al primo: le voci dissonanti nel nostro seno. Sia chiaro: noi non sosteniamo la censura in nessun modo. Le critiche, in un contesto democratico, devono poter emergere. Ma quando si è immersi in un conflitto – e questo è quanto sta accadendo in questi nostri anni – tra chi ha in animo la distruzione dell’unico Stato ebraico al mondo (peraltro tornato miracolosamente ad esistere dopo duemila anni di esilio e sofferenze) e chi lotta per la sua sopravvivenza, occorre essere consapevoli fino in fondo del senso che hanno le proprie parole.

Insomma, lo dico con il massimo dell’umiltà possibile, occorre riflettere e, possibilmente, verificare le proprie istanze al di là dell’emozione del momento. Le nostre azioni hanno conseguenze. Le nostre dichiarazioni sono prese, scandagliate e rigettate nell’arena per dimostrare agli indecisi che “persino gli ebrei la pensano come noi!”. Dunque, Israele non sarà il Paese perfetto (riuscite a trovarne uno che lo sia?), ma: right or wrong, my Country. E quando è in pericolo, per quanto mi riguarda, prima lo difendo, poi mi preoccupo di analizzare decisioni, azioni e conseguenze (non affronto il terzo punto, quello dei media: me lo lascio per una prossima rubrica).