Gerusalemme capitale e la scoperta dell’acqua calda. Trump ha riconosciuto l’ovvio e la verità può far solo bene

Taccuino

di Paolo Salom

Voci dal lontano Occidente

Conoscete quel detto “la verità fa male”? Bene, quando leggerete queste righe, la “bomba” del riconoscimento da parte di Donald Trump di Gerusalemme come capitale di Israele avrà già prodotto i suoi effetti. Al momento non siamo in grado di immaginare se in questi giorni sia già in corso la minacciata nuova Intifada, o se la Turchia del sultano Erdogan avrà già rotto le relazioni diplomatiche con Israele come promesso in caso di cambiamento dello status quo. Quello che possiamo prevedere sin da ora, tuttavia, è che la decisione del presidente americano è destinata a fare la Storia. Intendiamoci, riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele è come dire: “Il mare è blu”; o “l’aspirina fa passare la febbre”. In altre parole, è una tautologia elementare: da tremila anni la Città Santa di Davide e Salomone è il centro della vita ebraica, chiunque ne sia il provvisorio amministratore. C’è da chiedersi piuttosto perché il riconoscimento della realtà non sia avvenuto prima. In fin dei conti, una capitale è scelta dal popolo sovrano che in autonomia decide dove erigere le proprie istituzioni, in accordo con la propria storia, la propria cultura, le proprie aspirazioni.

Invece, per un corto circuito inventato soltanto per Israele (in quanto Stato-nazione del popolo ebraico), il mondo, in particolare il lontano Occidente, da 70 anni preferisce vivere in una finzione che non ha alcuna ragion d’essere se non nella cattiva fede di chi la esercita. E qui non conta l’idea che i palestinesi abbiano i loro diritti: perché accettare Gerusalemme quale capitale di Israele non significa negare nulla. Se un domani i rappresentanti della popolazione araba che vive nella Terra di Israele decidessero di siglare un accordo, quale che esso sia, capace di porre finalmente fine a un conflitto secolare, cosa impedirebbe di riconoscere una capitale palestinese là dove il trattato di pace la prevedesse? Questo per dire che non c’è alcuna relazione tra lo spostamento delle ambasciate nella capitale scelta sin dalla fondazione dal popolo ebraico, tornato sovrano nella propria terra, e la collaborazione della Comunità internazionale alla soluzione del conflitto.

Invece, in tutti questi giorni abbiamo ascoltato i vaticini più allarmati, le richieste più assurde, le minacce più violente. Passi che i palestinesi non siano contenti (ma perché poi? Cosa ha impedito loro di sedersi e trattare invece che provocare e uccidere?), ma che senso ha per Stati europei come Francia e Germania, o persino per il Vaticano, affrettarsi a dire che “cambiare lo status quo” non porterà la pace, al contrario sarà solo causa di nuove guerre? Possibile che nessuno sappia pensare fuori dagli schemi? Possibile che nessuno riesca a capire che non è Israele a opporsi alla fine del conflitto, ma sono quegli arabi che continuano a vivere nell’illusione che Israele possa essere cancellata dalla faccia della Terra? E che tutti coloro che nel lontano Occidente attaccano ogni mossa intesa a portare chiarezza sono i complici – in diplomazia l’ingenuità non esiste – del perpetuarsi di una illusione mortifera (questa sì) e fulcro di ogni disordine? La verità fa male. Può essere vero. Ma è l’unico strumento che abbiamo per trasformare in meglio questo nostro mondo, sempre più incline alla soluzione armata delle più piccole divergenze. Gerusalemme è la capitale di Israele dalla sua fondazione. Lo è e lo sarà per sempre. Perché senza Gerusalemme non esiste popolo ebraico (si può dire la stessa cosa degli arabi palestinesi?). E nessuno di noi intende accettare un futuro che somigli anche solo minimamente agli ultimi duemila anni. Siamo tornati in piedi: e ci rimarremo.
Permettetemi di dedicare la rubrica di questo mese a un Maestro cui sono stato legato per quasi trent’anni e cui devo moltissimo: Rav Giuseppe Laras z.z.l.