di Paolo Salom
Il (buon) piano di pace targato Trump: sarà l’ennesima occasione persa dai palestinesi? Speriamo che vinca il pragmatismo.
Netanyahu e Gantz, per una volta, si sono trovati d’accordo. Certo, nell’imminenza delle elezioni per la Knesset (le ennesime) e dati i rispettivi ruoli in quel momento, il 28 gennaio scorso, non si sono mostrati insieme nello Studio Ovale. E tuttavia che entrambi abbiano accolto il piano di pace di Donald Trump con favore (se non entusiasmo), dicendosi pronti a metterlo in opera subito o comunque utilizzarlo come punto di partenza per le trattative con i palestinesi, significa che qualcosa di buono, nelle ottanta pagine più mappe esplicative prodotte in tre anni di lavoro, c’è e va considerato. Ora, nel lontano Occidente soltanto il ministro degli Esteri britannico ha pubblicamente lodato la proposta che, peraltro, è stata approvata anche da Egitto, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, con la Giordania più tiepida ma possibilista. I “mille no” di Abu Mazen sono invece stati condivisi da cancellerie e parti politiche (persino i democratici americani) che per ragioni le più diverse hanno deciso di sostenere i massimalisti piuttosto che i pochi (almeno dalla parte dell’Anp) teoricamente pronti ad accettare un buon compromesso per cominciare finalmente a vivere in pace e relativa prosperità (sul piatto ci sono anche 50 miliardi di investimenti promessi soprattutto dagli sponsor mediorientali).
Eppure quante invettive: “Non funzionerà mai”; “un regalo a Netanyahu prima del voto”; “un favore solo agli israeliani”… Certo, bisogna mettere sul piatto gli interessi degli opposti schieramenti politici; l’anno elettorale americano; e anche la poca simpatia che suscitano nell’opinione pubblica (internazionale?) Donald Trump o Netanyahu (di Gantz al momento non si può ancora dire). Ma alla fine resta una sensazione strana sul palato di chi osserva da decenni tic e atteggiamenti verso Israele del lontano Occidente.
Insomma: consideriamo per un attimo cosa prevede il piano di pace: Gerusalemme indivisa con i quartieri oltre la barriera di separazione sotto la sovranità palestinese; annessione allo Stato ebraico dei maggiori insediamenti (quasi tutti fuorché quelli illegali per le leggi israeliane); continuità territoriale per il futuro Stato palestinese; aree israeliane cedute per compensare le annessioni; pieno controllo della Valle del Giordano a Israele con passaggi dedicati per i palestinesi verso la Giordania; un tunnel per collegare Gaza con il resto dello Stato palestinese. A mio modesto avviso, tutto è perfettibile: ma veramente qualcuno immaginava una soluzione differente dopo la sequela di rifiuti e violenze scatenate dai palestinesi a partire dal 2000, ovvero dall’offerta di Ehud Barak ad Arafat a Camp David, quando tutto quello che poteva essere desiderato era stato concesso? Davvero nel lontano Occidente qualcuno pensa che Israele si autodistrugga da solo per fare un piacere ai volonterosi odiatori degli ebrei?
Questo piano, a prescindere da chi lo abbia messo nero su bianco, è buono. Perché poggia sulla realtà piuttosto che sulle fantasie. Di una parte e dell’altra. È vero tuttavia che nella Storia spesso sono gli assoluti a prevalere e a muovere le decisioni dei leader. Speriamo per una volta di vedere la ragione e la giustizia avere la meglio. Ma restiamo ancorati alla realtà: e prepariamoci a tutto.