di Paolo Salom
Voci dal lontano Occidente
Vi siete mai chiesti perché l’Unione Europea sia così schierata a favore dei palestinesi e contro Israele?
Certo, con l’eccezione dell’amministrazione Trump, anche gli Stati Uniti non hanno mostrato grande simpatia per lo Stato ebraico nell’ultimo decennio: basti pensare alla risoluzione contro gli “insediamenti” (ivi compreso il Muro Occidentale, il Kotel) passata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu negli ultimi giorni della presidenza Obama. Possiamo dunque affermare che, nel suo complesso, l’Occidente sostiene più una parte rispetto all’altra nell’ormai secolare conflitto.
Soffermiamoci sull’Unione Europea e i suoi Stati membri, i più decisi sponsor di un piano – due Stati per due popoli – che se fosse stato possibile trasformare in realtà non sarebbe rimasto soltanto un progetto sulla carta. Ma che se applicato oggi, nel 70esimo dalla sua rinascita, significherebbe mettere in serio pericolo l’esistenza stessa di Israele. Cosa impedisce all’Europa di guardare al conflitto tra Israele e i palestinesi con inventiva e con uno sguardo nuovo? Perché insistere nel voler imporre “confini” (la linea verde del 1967) e divisioni (Gerusalemme capitale di due popoli) che sono stati offerti (da Israele) e rifiutati (dai palestinesi) più di una volta? E ancora: che senso ha inondare l’Anp di fondi (miliardi di euro) che vengono utilizzati poco per costruire uno Stato e molto per arricchimento personale o, peggio, per gli stipendi dei terroristi?
La verità, lo dimostrano i fatti che tutti possiamo osservare, è che nulla di quanto proposto finora ha convinto la controparte che Israele è un dato permanente e acquisito, il risultato di un processo storico “naturale” e anche inevitabile. Stando così le cose, quali sarebbero le opzioni? Intanto abbiamo visto che le mosse del presidente americano Donald Trump, come il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, non hanno portato l’Armageddon in Medio Oriente (le guerre che divampano nella regione hanno origini totalmente avulse dalla presenza dello Stato ebraico, unica isola di stabilità e democrazia). Al contrario hanno contribuito a smuovere le acque, portando altri Stati arabi a uscire da una posizione preconcetta di ostilità e mettendo tutti di fronte alle proprie responsabilità (ad esempio, su come affrontare il vero pericolo per la regione, l’Iran).
Non si esce da uno stallo ripetendo formule appassite. Eppure, l’Ue non fa altro. I leader occidentali – a parte qualche rara voce fuori dal coro – si nascondono dietro formule irritanti (“spostare l’ambasciata a Gerusalemme non aiuta la pace”), perpetuando nei palestinesi l’idea che Israele possa essere messo in un angolo e, alla fine, anche “sconfitto”, e spingendoli non a trattare, ma a mostrare sempre più intransigenza. E qui torna la domanda di partenza: perché? In diplomazia le nazioni mettono in prima fila i propri interessi, sempre che capiscano quali sono. Questo lo sappiamo. L’Europa evidentemente ritiene di proteggere il proprio status nel mondo arabo mostrandosi intransigente con Israele. Ma qual è il vero guadagno? Durante gli anni della Shoah, quando il mondo intero si chiudeva nei confronti della disperazione degli ebrei, Giappone e Cina – pur nemici tra loro – rifiutarono di piegarsi ai nazisti e accolsero invece migliaia di profughi dall’Europa. Il loro pensiero fu: “Se fanno così paura, questi ebrei devono essere davvero in gamba: portiamoli da noi”. Un pregiudizio anche questo, certo, ma almeno positivo. Non sarebbe preferibile un atteggiamento simile trattando oggi di Israele? E allora, buona festa dell’Indipendenza a tutti.