di Paolo Salom
Israele si prepara alle elezioni di primavera. Interessa?
A Occidente neanche un po’. Perché non c’è da accusare, denigrare, diffamare. E i palestinesi non c’entrano
In Israele si vota a primavera. La campagna elettorale, come in ogni matura e moderna democrazia, è già iniziata da tempo e appare destinata ad arroventarsi, cosa ormai comune nel mondo libero. Perché ve ne parlo qui? Perché nel lontano Occidente quanto avviene nello Stato ebraico sembra non interessare affatto. La copertura giornalistica è ridotta al lumicino. Articoli che spieghino cosa stia avvenendo nel Paese, quali dinamiche attraversino la società e il mondo politico sono quasi inesistenti. Eppure da raccontare ce n’è in abbondanza, con partiti che nascono da un giorno all’altro, alleanze che si rompono, liste che iniziano e finiscono nel volto di un singolo ministro o deputato. Come mai allora questa distrazione? Azzardo una prima ipotesi (ottimistica). La dinamica interna di Israele non interessa come non interessano quelle di altri Paesi: non c’è altro se non un sano provincialismo… Un momento, allora perché siamo alle prese ogni giorno con cronache e analisi sull’ultimo tweet (di migliaia) di Donald Trump? O sulla sorte futura di Angela Merkel? E che dire della Brexit o delle mire economico-politiche della Cina di Xi Jinping? Temi affrontati fin nelle pieghe più nascoste, ogni giorno. Immagino le possibili interpretazioni: questi personaggi/fatti sono più vicini alla nostra vita, i loro effetti hanno ripercussioni sulla nostra società: per questo se ne parla. D’accordo, plausibile. Ma, allora, perché il lontano Occidente si sveglia quando una (qualunque) crisi – che sia momentanea, creata ad arte, casuale o conseguenza di un conflitto ormai secolare – coinvolge, oltre a Israele, gli arabi palestinesi? Pensate soltanto al tempo (e al denaro) investito da organismi sovranazionali come l’Unione Europea nella questione. Alle migliaia di dichiarazioni pubblicate in occasione del minimo starnuto in arrivo dall’area per altre questioni invece del tutto negletta. Per non parlare delle associazioni no profit internazionali che, sponsorizzate da singoli Stati come da enti internazionali (la citata Ue, l’Onu, varie congregazioni religiose ecc.), sono all’opera 365 giorni all’anno per “sorvegliare la vita civile dei palestinesi e riportare le violazioni dei diritti umani da parte dell’occupazione”.
E qui arriva la seconda ipotesi (quella realistica). Israele è un’ossessione soltanto quando risponde al preconcetto che alberga nella coscienza del lontano Occidente. Cosa dice questo preconcetto? Che Israele è “un errore” della Storia; che non “doveva essere di nuovo creato”; che gli israeliani (o gli ebrei) di oggi “non hanno nulla a che vedere con gli antenati” che vivevano in Terrasanta. Dunque, se le cose stanno così, in condizioni normali, lo Stato ebraico viene bellamente ignorato, come se non esistesse. Quando invece agisce (per autodifesa), qualunque cosa faccia, è automaticamente “colpevole” e dimostra come le “vittime siano diventate i carnefici”. La realtà? Le dinamiche che hanno condotto alla rinascita di Israele nella sua patria storica? La sua vita di oggi tra le inevitabili contraddizioni comuni a qualunque società umana? Al lontano Occidente, a meno che non alimentino un “confortevole” e scontato antisionismo, non interessano nemmeno un po’.