di Fiona Diwan
Caro lettore, cara lettrice,
i virus e le malattie entrano nell’immaginario collettivo in modo altrettanto prepotente che non le storie d’amore, i drammi familiari e le epopee guerresche. Anche la letteratura biblica ne è piena, ci sono molti Midrashim che raccontano di fosche patologie e altrettante repentine guarigioni che colpiscono Maestri di epoca talmudica, Saggi della Mishnà, eroi e giganti a vario titolo del pensiero ebraico – come il caso di Yehudà haNasì -, presi di mira da patologie e malattie legate a contagi ed epidemie ma il più delle volte in diretta relazione di causa-effetto con importanti deficit in fatto di qualità morali: la mancanza di misericordia e pietas, ad esempio, un’eccessiva e crudele intransigenza, la superbia e l’esercizio dell’umiliazione altrui, o ancora l’ira, la collera, o l’attitudine al “predicare bene e razzolare male”, eccetera…
Midrashim e apologhi che raccontano di una refuà, una salute ritrovata dopo una profonda teshuvà, ossia una presa di coscienza con relativa contrizione circa le proprie debolezze e mancanze, un benessere fisico ripristinato dopo una coraggiosa revisione di comportamenti distruttivi, sciatti, insensibili, moralmente sanzionabili… Come ad esempio accade con la malattia che, in un memorabile e celebre Midrash, colpisce appunto Yehudà haNasì, l’uomo che prese l’epocale decisione di trascrivere la Legge orale nel II° secolo dell’E.V., ossia il Talmud, il quale si ammalò di calcoli renali e altre spiacevolezze perché colpevole di non avere avuto pietà per un vitellino che piangendo e scappando dal mattatoio a cui era destinato era venuto a rifugiarsi sotto il suo mantello; inesorabilmente restituito alla sua sorte (“Vai e fatti macellare, per questo sei stato creato”), la morte del vitellino porterà con sé la dolorosa malattia del Maestro, il quale guarisce solo quando imparerà ad avere misericordia degli animali e delle creature più indifese del pianeta. L’apologo, databile intorno al 190 dell’E.V., ci restituisce non soltanto una sensibilità ante litteram nei confronti dei più deboli ma ci racconta della malattia come occasione di rinascita spirituale, finestra che si spalanca su insospettati abissi di consapevolezza, opportunità unica per guardare al mondo e alle persone con occhi nuovi ed empatia.
Malanni, indisposizioni, febbri, acciacchi, rinascite, guarigioni, resurrezioni dell’anima e del corpo. In proposito, viene in mente un altro straordinario compendio, Il Sanatorio all’insegna della clessidra, di Bruno Schulz (Einaudi), tra i più grandi autori della letteratura polacca del Novecento, ucciso a bruciapelo per strada dalla rivoltella di un nazista, in quanto ebreo: in uno dei suoi pirotecnici, sognanti, fantasiosi racconti, si narra di un figlio che al capezzale del padre si inventa il più audace tentativo per tornare indietro nel tempo, per guarire il genitore. Bruno Schulz individuava nella reclusione dei malati, nella nudità del dolore fisico, nella perdita di identità che si prova in un letto d’ospedale, un momento di sospensione, una possibilità d’inversione cosmica, di rigenerazione della materia e di cambio radicale di destino.
Come scrive la scrittrice israeliana Zeruya Shalev nel suo più bel romanzo, Dolore (Feltrinelli), «c’è un momento netto tra prima e dopo, esiste nel nostro personale scorrere del tempo un varco, una linea di confine tra quello che eravamo e quello che siamo diventati con gli anni e le esperienze», un momento preciso, un istante, un qualcosa che ti strappa con forza a quello che c’era, che eri, che avevi; e ti trovi su una sponda opposta rispetto alla tua solita vita e da quella sponda inesplorata e inizialmente ostile inizi a capire, prendi in mano una bussola nuova che ti guidi in una geografia dell’anima che ti è sconosciuta. Per, da quel luogo, a volte, ricominciare daccapo.