Sì, il Monte del Tempio è anche una questione politica. Lasciamola però a chi ha il diritto (e il dovere) di gestirla

Taccuino

di Paolo Salom

[Voci dal lontano occidente] Un tempo in Italia, e non solo, si diceva che tutto era “politica”. Anche le questioni private. Nel lontano Occidente questo riflesso condizionato non è scomparso ma si è trovato un nuovo oggetto della propria considerazione totalizzante: Israele. Quando si parla dello Stato ebraico, dalla formazione di un governo allo status presente o futuro delle relazioni con i vicini arabi, il dibattito ha respiro internazionale. E viene approvato o respinto come se riguardasse direttamente gli osservatori più distanti. Un esempio è la polemica che circonda il Monte del Tempio, al centro di una disputa a più soggetti (Israele, l’Anp, la Giordania e ora anche l’Arabia Saudita) che porta altri Paesi a dire la loro come se li riguardasse in prima persona.

Non c’è dubbio: questioni religiose come quelle che si riferiscono al luogo più sacro della Storia (non soltanto per gli ebrei) si trasformano istantaneamente in politica. Perché le rivendicazioni di sovranità su Har Habait, almeno dal 1967, e cioè all’indomani della riunificazione di Gerusalemme, si legano a filo doppio con la legittimità stratificata nei secoli di chi abbia il diritto (esclusivo) di pregarvi.
Ora, la recente “passeggiata” del neo ministro Itamar Ben-Gvir, poco tempo dopo la nascita del nuovo esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu, è stata accolta dalle capitali arabe con rabbia e sdegno (atteggiamento non sorprendente). Ma ha suscitato anche la reazione ufficiale degli Stati Uniti che hanno “deprecato” la decisione del rappresentante di Otzma Yehudit (Potere ebraico), formazione di estrema destra. Molti altri Paesi occidentali hanno ribadito la loro contrarietà al “cambiamento dello status quo” del luogo sacro, stigmatizzando il gesto di Ben-Gvir, mentre i media internazionali hanno subito ricordato la visita di Sharon, nel 2000, dopo la quale fu scatenata una sanguinosa rivolta dei palestinesi, ben presto definita Seconda Intifada.

Il primo ministro Netanyahu ha più volte ribadito che nessuno, a Gerusalemme, ha intenzione di cambiare lo status quo sul Monte del Tempio, definito da Moshè Dayan all’indomani della Guerra dei sei giorni, che consente ai musulmani libero accesso sempre e libertà totale di culto, mentre limita le visite degli ebrei a giorni e orari specifici, vietandone rigorosamente qualsiasi preghiera (basta muovere le labbra per essere espulsi senza esitazioni). È giusto tutto questo? Al di là delle opinioni, vorrei qui sottolineare che nel giugno 1967 Moshè Dayan agì di propria iniziativa, lasciando alla Casa reale giordana il controllo religioso dei luoghi conquistati da Tsahal, mentre a Israele sarebbe da allora spettato garantirne la sicurezza. Cosa che è stata fatta finora: un estremista israeliano fu arrestato quando fu scoperto a progettare la distruzione con la dinamite della moschea di Al Aqsa. Mentre la polizia è intervenuta ogni qualvolta i palestinesi iniziavano assalti e rivolte partendo proprio da lì.

Israele è una democrazia, come sappiamo. Un Paese non privo di difetti che tuttavia ha forze e capacità di risolvere le questioni più dirompenti con gli strumenti della legge e della legalità. Dunque che bisogno c’è di unirsi al coro delle condanne? Ricordiamo che i giordani, nel 1948, rasero al suolo il quartiere ebraico della Città Vecchia dopo la conquista, comprese le tante (e antiche) sinagoghe che vi si trovavano. Gli israeliani avrebbero potuto rendere la pariglia nel 1967. Ma non l’hanno fatto. Per motivi ovvi, accanto a una differente predisposizione: non chiudere la porta alla pace, un giorno, non importa quanto lontano. Chi adesso aizza le folle gridando al lupo ha ben altri obiettivi. Arafat, nel 2000, aveva soltanto bisogno di un pretesto per scatenare la sua rivolta. Se Sharon non fosse andato sul Monte del Tempio ne avrebbe trovato un altro.

Dunque, per tornare a noi: di cosa ha timore il lontano Occidente? Di una rivolta araba? Ma se fosse nei piani di chi ha il potere di lanciarla, dubitate forse che ne mancherebbe l’occasione? Sì, il Monte del Tempio è anche una questione politica. Lasciamola però a chi ha il diritto (e il dovere) di gestirla. Ricordando che non soltanto i musulmani hanno motivi per pregare in quel luogo: è sacro agli ebrei da sempre e ai cristiani da almeno duemila anni.