Si può manifestare dissenso senza violenze, minacce e prevaricazioni? Sì. Ce lo insegna la Corea del Sud

Taccuino

di Paolo Salom

[Voci dal lontano occidente] Di ritorno da una trasferta di lavoro in Corea del Sud, a Seul per la precisione, mi sono ritrovato a fare delle riflessioni su come funziona il mondo e soprattutto il lontano Occidente. Ricorderete che il Paese orientale, peraltro diviso in due dal 1945 e attraversato da una linea di demarcazione che non è un confine ufficiale, ha affrontato all’inizio di dicembre una grave crisi istituzionale. Il presidente Yoon – democraticamente eletto – ha pensato bene di promulgare la legge marziale e, di fatto, di tentare un colpo di Stato. La maldestra iniziativa è tuttavia fallita nel giro di poche ore, perché il Parlamento, riunitosi d’emergenza, ha annullato il provvedimento e perché i cittadini sudcoreani si sono immediatamente mobilitati a difesa della democrazia. Così, il capo dello Stato, dopo soltanto sei ore, ha fatto marcia indietro.

Nei giorni seguenti un numero enorme di giovani e meno giovani, uomini e donne hanno manifestato per ore in un gelo invernale inusitato (per la stagione) facendo capire senza alcuna esitazione che nessuno voleva tornare agli anni della dittatura militare e delle leggi speciali (un’era drammatica che si è chiusa soltanto negli anni Ottanta del secolo scorso). Ora, tutto questo preambolo a proposito di un Paese certo molto lontano da noi serviva a introdurre la mia riflessione. Questa: si può scendere in piazza senza sfasciare tutto. Perché questo è successo in Corea. I cittadini hanno gridato slogan, anche duri, ma non hanno mai superato la linea rossa della violenza. Perché? Forse sono più educati o migliori di chi risiede in Occidente? Forse, in parte.
Ma a una mia domanda a questo proposito, tutti hanno risposto in un solo modo: “Abbiamo vissuto nella violenza di Stato, nella prevaricazione delle autorità. Noi non vogliamo più tornare in quelle condizioni. Per questo rifiutiamo la violenza. Il presidente? Andava affrontato a norma di legge”.
Ed eccoci a noi. Alle manifestazioni settimanali nelle nostre strade. Agli insulti contro il primo ministro italiano e alle oscenità rivolte contro Israele. Alle sinagoghe bruciate. Al terrore instillato nelle comunità ebraiche d’Italia, d’Europa, di Stati Uniti, Canada e Australia. Alle autorità che, in molti casi (per fortuna non da noi) si sono preoccupate più di arginare le contro manifestazioni (mai violente) a difesa di Israele che quelle in odio allo Stato ebraico. Al clima di paura e aggressività in cui ci siamo trovati a vivere dal 7 ottobre 2023.

Voi direte: ma in Corea i problemi del Medio Oriente non arrivano. E invece sì, arrivano anche lì: ci sono sudcoreani che sostengono i palestinesi e altri che stanno dalla parte di Israele (vedi articolo del 13.10.2024 su Mosaico). Soltanto che a nessuno viene in mente di andare oltre una corretta manifestazione del proprio pensiero. Nessuno si sogna di alzare un dito contro un altro essere umano. Sono buoni i sudcoreani? Di nuovo: no, sono individui come tanti nel mondo. Quello che hanno in più è la consapevolezza che la violenza è qualcosa che porta verso orizzonti oscuri e, spesso, si ritorce su chi la utilizza per primo. Se questo modo di pensare fosse un po’ più diffuso, nel lontano Occidente, sono certo che tanti contrasti potrebbero essere risolti prima di quanto immaginato.

Guardate alle distruzioni a Gaza e in Libano, e provate a riflettere su chi ha iniziato quel percorso inumano di odio e volontà di azzerare il “nemico” (cioè noi); guardate alle città dell’Occidente e a chi le ha rese incompatibili con la civile convivenza e, in particolare, per la vita di ebrei e israeliani. Ecco: questo è il risultato di chi crede di poter aggredire un presunto avversario rendendogli impossibile la vita. Per noi è stata dura, certo. Ma per gli altri è finita peggio. La tragedia, in tutto questo, è legata alle tante anime innocenti che non torneranno più indietro.

Vale dunque la pena, io credo, di soffermarsi sulla vanità dell’aggressione fisica. Ma attenzione: io preferirei mille volte vivere in pace come nella Sud Corea di oggi. Tuttavia, la pace non può essere mai a senso unico. I soldati, a Seul, non hanno usato i fucili, hanno accettato di perdere la partita. I nostri – e mi riferisco a Israele e a Tsahal – hanno agito nell’unico modo immaginabile. Hanno salvato lo Stato ebraico e, con il loro coraggio, hanno cambiato (in meglio) le sorti di tanti in Medio Oriente. E nel lontano Occidente?