Una scritta antisemita a Pomezia

Un fiume di denaro dal Qatar ha inondato i forzieri delle università alterandone i principi di indipendenza e libertà

Taccuino

di Paolo Salom

[Voci dal lontano occidente] Vorrei tornare sulla guerra che si combatte contro gli ebrei in gran parte del mondo. Perché, insieme alle minacce di terroristi e loro sponsor, è uno dei maggiori motivi di preoccupazione per noi tutti. Abbiamo visto che cosa c’è dietro l’aumento esponenziale degli episodi di antisemitismo qui in Occidente: la cinica propaganda foraggiata dai soldi di Stati e istituzioni del Medio Oriente e non solo.

 

Un fiume di denaro dal Qatar, per fare un esempio, ha inondato i forzieri di università prestigiose (a partire da quelle americane) alterandone i principi di indipendenza e libertà intellettuale; allo stesso tempo ha favorito l’assunzione di docenti schierati (da una parte sola) e l’arrivo di studenti che, esattamente come era capitato in Europa qualche decennio prima, hanno occupato tutti gli spazi possibili con i loro slogan e le loro attività d’odio anti israeliano e anti ebraico. Negli anni, questa “occupazione militare” degli spazi culturali ha prodotto una classe dirigente nutrita di stereotipi e menzogne, incapace di discernere la realtà dalle invenzioni propagandistiche.

Se vi siete mai chiesti come sia possibile che le balle arabo-palestinesi sul conflitto in corso attecchiscano con tanta facilità nel lontano Occidente, pensate che scuole e circoli culturali di ogni genere sono monopolizzati dal pensiero unico: Israele è la causa di tutti i mali dell’universo. Non che questa idea faccia fatica a diffondersi: il terreno è fertile da secoli. Tuttavia, non è soltanto il caso, non è soltanto la contingenza storica o politica. Dietro a questo fenomeno così pernicioso c’è una volontà precisa, forse un disegno: preparare l’umanità a una nuova Shoah?

È già accaduto, dunque – come scriveva Primo Levi – può accadere di nuovo. Magari non qui. Non in Europa. Non negli Stati Uniti. Ma se fosse Israele a rischiare di essere “spazzato via” dalla cartina geografica, come promettono Hamas, Hezbollah e le nazioni dell’asse del male, quanti, intorno a noi, leverebbero la voce per opporsi? Non vorrei apparire troppo pessimista. Ma ritengo che sarebbero davvero pochi, se non nessuno. Almeno se questa marea nauseante di antisemitismo non troverà la fine.

Anche qui, difficile dire cosa fare. Difficile trovare una ricetta. Se non nella consapevolezza che per noi non esiste altro destino. Quando si sostiene che Israele e la Diaspora sono legati a filo doppio (e non importa con quante differenti idee sul sionismo) è questo che si intende: non si dà l’uno senza l’altra. E viceversa. La sopravvivenza degli ebrei di tutto il mondo dipende dalle scelte che si faranno, in questi mesi, a Gerusalemme come altrove. Non basterà combattere (e vincere) sul campo se poi noi, qui, non riusciremo a fare sentire la nostra voce, la nostra posizione, le nostre ragioni. Certo, a dispetto dalle teorie sul controllo sionista del mondo, la realtà è ben più grama. E comunque i nostri avversari, che hanno ben studiato le dinamiche internazionali, sanno come fare e ritengono di avere dalla loro il tempo (e i numeri). Dunque? Posso solo dire che ciascuno di noi è chiamato a mettere un mattoncino, un’idea, una proposta per contribuire a costruire una diga capace di fermare lo tsunami prima che ci travolga tutti. Lo abbiamo fatto in passato (la rinascita di Israele). Possiamo farlo di nuovo.