lo storico israeliano Yehuda Bauer è tra i consiglieri scientifici del Museo Yad Vashem di Gerusalemme. In occasione dell’uscita del suo ultimo libro, The Impossible People, dedicato al passato e al futuro del popolo ebraico, Bauer ha rilasciato un’interessante intervista al quotidiano Haaretz (old.mosaico-cem.it; www.gariwo.net). Perché Bauer chiama gli ebrei il popolo impossibile, intendendo insolente e dotato di chutzpà ai limiti del tollerabile? «Gli ebrei sono sempre stati in opposizione a tutto il mondo e sarebbero danneggiati dall’unità. Le liti e dispute sono il motore che fa progredire, regredire o muovere su vie secondarie la nostra cultura. Sono il nostro elisir di lunga vita», spiega lo storico. «Le lotte intestine sono un tratto distintivo del popolo ebraico. La nostra cultura si basa su questi conflitti interni. Inizia dalla lotta tra i chassidim e i loro avversari; i profeti veri e quelli falsi; la divisione del Regno unito in due regni rivali in lotta tra loro; le dispute tra sadducei e farisei, tra ellenizzatori e asmonei, tra l’establishment religioso e i vari zeloti. Se ci viene a mancare la nostra capacità di litigare, saremo finiti. I dibattiti infiniti, dal Medioevo ai nostri giorni, costituiscono la vitalità di questo popolo. C’è qualche carattere intimo del mondo ebraico che è speciale e affascinante, come ce ne sono altri che a volte risultano repellenti e disgustosi».
Ma davvero si può parlare degli ebrei, come The impossible people? Personalmente penso di sì, non fosse altro che per la scelta, impervia e a volte quasi insostenibile, di vivere in bilico sul crinale del dentro e del fuori, del particulare ebraico e dell’universale. Vorrei citare, a questo proposito, un interessante commento a Bereshit del Rabbino capo Alfonso Arbib che spiega il momento in cui Avraham si fa, da solo, la milà: siamo nel querceto di Mamrè, e Mamrè è un buon amico del nostro patriarca. Un midrash narra che Avraham pone una domanda a tre amici: ovvero se, secondo loro, la milà, che lui sta per procurarsi, segnerà una separatezza irreversibile col resto del mondo. Mamrè, a differenza dagli altri due amici, gli risponde di non preoccuparsi, lo stigma della sua diversità ebraica, impresso nella carne, non segnerà una cesura, non sarà il segno di una lontanza incolmabile. Anzi. Semmai, dice Mamrè nel midrash riportato, farà sì che Abramo, -e per estensione il popolo ebraico- venga spinto a incontrare il mondo là fuori a partire dalla propria diversità, insegnando all’umanità intera ad accetare il nostro prossimo proprio a partire dal segno della propria differenza. E anche a costo, qualche volta, di risultare impossibili.
Fiona Diwan