il Giorno della Memoria è appena trascorso, con qualche polemica, in seguito al dibattito che sta provocando il pamphlet di Elena Loewenthal Contro il Giorno della memoria (addEditore), appena uscito (vedi old.mosaico-cem.it). Politicamente molto scorretto, scritto tutto in soggettiva da una scrittrice che da anni riflette sul tema e che si dichiara da sempre “ossessionata dalla Shoah”, il libro prende le mosse da un grappolo di domande: che cosa sta diventando il 27 gennaio? Un contenitore vuoto, una cerimonia stanca, una finta riflessione che approda a uno sterile rituale, uno spazio da addobbare con la retorica? E la memoria, prima ancora che degli ebrei, non dovrebbe essere dell’Europa intera?, elaborata e fatta propria e non invece museificata e imbalsamata come accade oggi? Secondo Loewenthal, questa giornata è un grande errore collettivo, l’errore di chi vuole provare, un giorno all’anno, ad addolcire la coscienza civile e alleggerire il senso di colpa. L’errore sta nel considerarla come un tributo, un simbolico risarcimento agli ebrei e non invece qualcosa che appartiene a tutti. La scrittrice pone delle domande che sono un sasso gettato nello stagno del conformismo e degli stereotipi. Il 27 gennaio si sta trasformando nello spettacolo della memoria, scrive, nella venerazione di un idolo, l’idolo del ricordo, nella ricerca di qualcosa di sempre “nuovo” e colorato da esibire al pubblico che accorre a eventi sempre più numerosi e ridondanti. Col rischio di generare un senso di vuoto, di troppo, di insensatezza, una stucchevolezza che ogni celebrazione porta con sé. E certamente, a Loewenthal va il merito di estremizzare quello che molti di noi, qualche volta, hanno pensato e sentito senza mai osare dirlo.
Ora, io stessa mi chiedo: ha senso ricordare così? Non lo so. Non so nemmeno quale altra strada si possa seguire e se invocare il silenzio e l’oblio, come raccomanda Loewenthal, sia la cosa giusta. Il Giorno della memoria è, in fondo, un progetto educativo, un tributo di civiltà alla sterminata innocenza sacrificata nei campi. C’è modo di immedesimarsi e spartire l’esperienza della Shoah? Ricordare serve a colmare la distanza, a condividere il trauma, il dolore? Credo di no. Tuttavia, guardando film come Il pianista, leggendo i libri di Aaron Appelfeld, quello molto bello di Edith Bruck (Quanta stella c’è in cielo, da cui è tratto il film di Roberto Faenza in copertina del Bollettino), o ascoltando le parole di sopravvissuti come Nedo Fiano o Liliana Segre, l’emozione e l’immedesimazione scattano immediati. Ecco perché credo che, in fondo, non ci possa essere alternativa a un momento pubblico, se non nella ricerca di un tono più meditativo, raccolto e sommesso. E non più così tonitruante e spettacolarizzato.
Fiona Diwan