le feste solenni sono un’occasione per ricordarci che le nostre vite non sono mai semplicemente aleatorie (ovvero, etimologicamente, governate da un colpo di dadi, -alea in latino vuol dire dadi-). Così invece era convinto, duemila anni fa, il mondo greco-latino con la sua idea di fato-fatalità: «Non accade che l’imprevisto», e anche il peggiore degli imprevisti, ripetevano i romani.
Per il mondo ebraico invece, il concetto di teshuvà va nella direzione opposta, e significa letteralmente tornare sui propri passi, guardarsi indietro e volgersi al tempo passato, all’anno che è appena trascorso per capire il senso profondo degli accadimenti che ci hanno segnato e coinvolto. Ecco allora che, se siamo in grado di capire ciò che ci accade e penetrare nelle pieghe dei comportamenti sbagliati smontandone gli automatismi, ecco che l’imprevisto può coglierci meno impreparati e, se si produce, diventare meno deflagrante e distruttivo, anzi, con buone probabilità, addirittura di rifondarci.
Un celebre talmudista del IV secolo, Rabbi Tanhuma, diceva che “il Creatore nasconde agli uomini il giorno della loro morte, affinché possano costruire e possano piantare», così almeno leggo nel Sefer Hatoda’à – Il ciclo dell’anno ebraico, del pensatore contemporaneo Eliahu Kitov (bellissimo il capitolo dedicato al mese di Tishrì). Se conoscessimo il nostro futuro, e la nostra “data di scadenza”, come potremmo agire nel mondo e cercare di migliorarlo? Tutto ci sembrerebbe vano e inutile. La folgorante visione del destino umano la trovo nel citato Pirkè Avoth (IV, 22), “è malgrado te stesso che sei stato creato, è malgrado te stesso che hai visto la luce; ed è senza il tuo consenso che vivrai, ed è contro la tua volontà che morirai…”.
Inscritti tra questi due poli assurdi, come Prometeo, viviamo condannati a dover “rubare il fuoco” ogni giorno, a dover “fabbricare” un senso, a trovare un significato, cercando, nel periodo tra Rosh HaShanà e Kippur, di visualizzare e immaginare un altro anno degno di essere vissuto. È un bene quindi che non si sappia nulla del termine preciso delle nostre vite (ed ecco perché nel pensiero ebraico è severamente proibito cercare di interrogare il futuro andando da indovini, cartomanti, veggenti…). Siamo condannati a non sapere come finirà il viaggio. Poiché solo questa magnifica ignoranza ci libera dal senso di inutilità e ci permette di “costruire e di piantare”, scrive Kitov, che cita il talmudista. Ecco allora perché con l’augurio di chatimà tovà, con la rinnovata iscrizione nel Libro della Vita, sul crinale tra il vivere e il morire, la partita dello Yom Kippur si gioca sulla privazione e sulla mancanza per insegnarci la pienezza, ci sollecita con la carenza per farci abbracciare l’abbondanza del senso.
Per ricominciare, con un altro anno
ancora, a “costruire e piantare”.
Fiona Diwan