finalmente, dopo vent’anni di oblio, si torna a parlare di un grande scrittore dimenticato, secondo alcuni il più grande del XX secolo americano (insieme a Philip Roth). Si tratta di Bernard Malamud, personaggio schivo, ironico, malinconico e pieno di sensi di colpa, insomma quanto di più lontano si possa immaginare dalla sensibilità Pop e un po’ smargiassa degli ultimi decenni. Nato a Brooklyn da genitori russi, Malamud era americano, era molto ebreo e lo era in un modo tutto suo. Passato alla storia come il Cecov del milieu ebraico urbano newyorkese, ci ha trasmesso un’idea di jewishness molto contemporanea, tornata in auge oggi forse per via della crisi e del generale mood più sobrio e low profile.
Non nascondo che questa riscoperta mi regala un profondo piacere personale e la voglia di dedicare a Malamud, in futuro, un approfondimento; non mi capacitavo dell’oscuramento di cui pativa nei milieu letterari dell’ultimo quarto di secolo. Ho letto Il commesso a 21 anni, ed è stato il romanzo che, tra molti, più mi ha formato, insieme a tanti studenti della mia generazione. Scelgo una chiave personale per spiegare come, in verità, Malamud abbia dischiuso per noi che lo leggevamo allora, una particolare dimensione ebraica, una dimensione che sentivamo vicina e nostra, e che sembra tornare attuale. «Malamud è stato uno scrittore morale. La letteratura, per lui, non era solo ricerca della bellezza», scrive Francesco Longo nell’introduzione di Per me non esiste altro, un prezioso inedito di Malamud appena uscito per Minimum Fax. E la cosa non può non colpirci, dopo 30 anni di dittatura dell’apparire. La storia che racconta Malamud è sempre la stessa, quella di Giobbe, ha scritto lo scrittore romano Alessandro Piperno, e il pensiero va a tutti i nuovi, non pochi Giobbe dei nostri giorni.
Malamud era intriso di ebraismo Ostjuden, vibrava di una sensibilità mistica mutuata dalla frequentazione, anche a titolo favolistico, dei Midrashim e della tradizione popolare ebraica. Quando Malamud descrive lo sfavillio del tallet bianco di suo padre come se irradiasse di luce propria, chiarore arcano immerso nel buio lattiginoso dell’alba (Il cappello di Rembrandt, Einaudi), capiamo che quello scialle bianco di preghiera è sì una stella per smarriti naviganti ma è anche la dimensione perduta di chi “ha i sassi nel cuore” ed è dilaniato perché ha due anime in conflitto tra loro. Malamud reagiva infastidito quando lo si definiva “scrittore ebreo”, definizione che si portava dietro un sapore di etnicità e emigrazione. Per Malamud, fa notare Cynthia Ozick, “lo spirito ebraico è l’esatto contrario dell’etnicità e del provincialismo”. Malamud parlava della “fortuna di essere una minoranza”. Per lui l’ebraismo era un frugarsi nel cuore alla ricerca della speranza e forse scoprire che Dio non c’è, non perché non esista, ma perché in qualche momento ama nascondersi. «Ogni uomo è un ebreo anche se potrebbe non saperlo», diceva. «Quello che voglio dire è che la tragedia ebraica è prototipica, concreta, simbolicamente comprensibile. Se lo capisci ti rendi conto che ti appartiene, che tu sia o no un ebreo». Perché per Malamud, era solo nel particulare, nei recessi luminosi dell’identità interiorizzata che si annidava l’universale e il suo calore. Una cosa, questa, che oggi ci riguarda tutti.
Fiona Diwan