come molti di noi già sanno, nel pensiero ebraico il concetto di historia, Storia, così come lo avrebbero inteso Erodoto, Polibio, Strabone o Plutarco (in lingua greca, ricerca, indagine), non esiste. La lingua ebraica usa il termine toledot, generazioni, storie, discendenze, cronache. Nella tradizione ebraica la parola giusta per fissare gli eventi che accadono è zachor, ricorda, termine che ha un significato antipodico rispetto al concetto di historia e presuppone un procedere asimmetrico, fatto di flashback e libere associazioni, storie fatte di andirivieni e vagabondaggi della memoria, dove più che la cronologia conta il tema. Qualcosa di simile alla memoria involontaria di Marcel Proust ma su scala planetaria e collettiva, dove non c’è un prima o un dopo ma invece una simultaneità, un tempo interiorizzato che si riferisce contemporaneamente al presente, al passato e al futuro. Non a caso, un tonificante saggio di Roberto Della Rocca (Con lo sguardo alla luna, Giuntina, vedi pag. 18), ci parla delle differenze tra le civiltà dello spazio, Egitto, Grecia, Roma, con le loro grandiose testimonianze archeologiche, e la civiltà ebraica, una civiltà del tempo, col suo santuario portatile, la Torà, e la sua condizione diasporica, aniconica e anti-spaziale.
Un passato che respira solo nel presente. Una storia che si fa calendario. Un ieri che è anche oggi e insieme domani, basti solo pensare al significato dei chaggim e alle feste appena trascorse: un passato che non passa ma vibra nell’oggi, con un retentissement, un riverbero, che ci è dato dalle attualizzazioni infinite della vicenda di Ester, dei Maccabei, dell’uscita dall’Egitto… Una civiltà del tempo fa fatica a partorire un concetto lineare della propria vicenda storica. Meno male che a farlo ci pensano sempre gli storici, come ad esempio oggi il francese Michel Abitbol: la sua monumentale Storia degli ebrei – Dalle origini ai giorni nostri (Einaudi), parte dal Pentateuco come mito fondatore e costruzione di una biografia “comune”; e attraversando tremila anni di storia ci consegna date, eventi, snodi fondamentali, dai romani al marranesimo, dall’emancipazione alla Shoah, fino ad arrivare alla nascita di Israele, alle varie Intifade, all’omicidio di Rabin. Colpisce la magnitudo dell’impresa e la serietà della sfida che Abitbol ha affrontato, tracciando, pagina dopo pagina, l’emergere di una coscienza storica comune. Una storia ormai bipolare, Israele-Diaspora, sempre più focalizzata intorno a Gerusalemme e New York, come all’epoca del secondo Tempio, quando Gerusalemme e Babilonia erano i due centri d’irradiazione del mondo ebraico. Sul nastro trasportatore della storia che ci imbandisce Abitbol, incontriamo filosofi, profeti, capi di stato, generali, poeti, scrittori, un catalogo ugualmente antisemita o filosemita, a seconda. Accanto a campioni della letteratura come Ronsard, Marlowe o Lope de Vega, feroci antigiudei, io voglio ricordare Michel de Montaigne che, come Proust (entrambi di madre ebrea), ci regala con i Saggi, la prima opera letteraria capace di dilatare il tempo, un capolavoro fecondato dalla scoperta interiorizzata e asimmetrica di un tempo storico fondato sullo zachor e non invece sulla historia.
Fiona Diwan