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2015
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Caro lettore, cara lettrice,
la lettera “aleph” è considerata la più eterea e sacra dell’alfabeto ebraico, l’unica che non volle “gareggiare” quando l’Eterno domandò all’intera sfilata dell’alfabeto, chi volesse essere primo nell’opera della Creazione. Tutti, tranne lei, l’umile “aleph”, alzarono la mano per dare inizio alla Creazione. Ma l’Eterno scelse la “beth”, quella con cui inizia la Torà (“bereshit”, in principio), lettera della parola benedizione, berachà. Il racconto narra ancora che l’Altissimo volle ricompensare la “aleph” per la sua umiltà, e lo fece dandole il primo posto nel Decalogo, la cui frase iniziale («Io sono il Signore Dio tuo»), inizia appunto con “Anochì”, “Io”, la cui iniziale è “aleph”. La storia dell’uomo e del mondo inizia quindi con la “beth”; mentre l’esperienza del divino ci viene invece offerta solo a partire dalla “aleph”.
Leggo queste frasi nel quinto volume Adelphi, appena uscito, di Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, e soccombo ancora una volta al fascino delle letture bibliche: i cinque libri della Torà scorrono come un fiume in piena, come un fiabesco racconto pieno di rutilante erudizione e zeppo di spunti eterni sulla condizione ebraica (e umana). Mi chiedo allora qual è, da millenni, il segreto della diaspora ebraica, capace di tenersi in equilibrio tra due mondi. Da una parte, l’universo emozionale e identitario dell’ebraismo, – religione, coesione di gruppo, irrequietezza- e, dall’altra, il confuso cosmo maggioritario che ci circonda, a volte seducente, spesso indifferente o ostile.

 

Il pendolo dell’ebraismo oscilla, da tre millenni, tra questi due poli, con movimenti larghi o nervosi, un pendolo che accompagna gli ebrei nel loro viaggio tra inclusione ed esclusione. Capisco così che la nostra lunga avventura diasporica si è trasformata in una sorta di sesto senso culturale. Ovvero nella tendenza a uscire da noi stessi per ritrovarci e per narrarci; una tendenza a raccontare la nostra condizione con spietata ironia, vis surreale, vigore testimoniale o senso del tragico, a seconda (e che su questo Bollettino troverete dispiegata nello Speciale Libri a pag 14). Ma cos’è più precisamente questo sesto senso culturale? Forse è quel radar che ci fa immediatamente percepire quando le cose si stanno mettendo male e le antenne si drizzano? È quando questa sensibilità, per trovare sfogo, si trasforma in scrittura, creatività, racconto, lamento, discorso, salmo in forma di prosa?

 

O è quando ci accorgiamo che qualcuno, da qualche parte, si sveglia e decide che è venuto il momento di discriminare, demonizzare? Forse è così. Come accade oggi, ad esempio, con BDS, il movimento che fa capo a Ong arabe e che dichiara di lottare per i diritti umani e contro ogni forma di apartheid ma che alla fine sembra avere un solo obiettivo, delegittimare Israele (vedi pag. 8). BDS, curiosamente, non fa mai un accenno a Isis o ai tagliatori di teste, alla carneficina in Siria o a quella dei cristiani d’Oriente… Per BDS, ciò che conta è riaccendere l’antigiudaismo europeo affinché Israele (e con lui la diaspora ebraica), tornino a indossare la stella gialla. Così, a noi che siamo qui, dotati di quel sesto senso culturale, non resta forse che ripartire dalla aleph e prepararci a combattere di nuovo.

Fiona Diwan