Caro lettore, cara lettrice,
mi sono chiesta molte volte se il “conosci te stesso”, il celebre gnosis auton del pensiero greco, fosse in conflitto con uno dei pilastri del pensiero ebraico, il naasè venishmà, il “faremo e ascolteremo” del Sinai, pietra angolare del paradigma conoscitivo d’Israele. Se insomma, anche in questo caso, il celeberrimo adagio filosofico greco fosse considerato apikoros, eretico, dal punto di vista ebraico. E in verità, constato da sempre una stimolante complementarietà dialettica tra i due principi, l’uno rivolto verso il Dentro e le scaturigini psichiche, il secondo verso l’Alto, verso la dimensione etica che soltanto il senso profondo del limite e “della regalità dei cieli” può dare.
Eticità e Psiche, senso della trascendenza divina e Storia fatta di genealogie e di rapporti familiari. Non a caso, la festa di Pesach è forse, più delle altre, legata in qualche modo a una faccenda di relazione tra padri e figli, di confronto tra le generazioni, festività che pone il tema della trasmissione e del tramandare, condensato nell’imperativo – contenuto nella quasi totalità delle preghiere ebraiche-, di ricordare l’uscita da Mizraim, (“Anochì, io sono Colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto e dalla casa degli schiavi…”- vedi pag 14-).
Per molti anni, da giovani, abbiamo guardato i nostri genitori con occhi di pietra, attenti a guardare avanti, a fare la nostra strada distogliendo lo sguardo dalla penombra domestica, pronti a scambiare i nostri genitori con i primi che passavano e che ci siano sembrati migliori o più presentabili. Lo sguardo fisso sulla traiettoria della nuova vita guadagnata da soli, sordi e ciechi verso padri e madri da cui smarcarsi – amatissimi e intoccabili a parole, coloro da cui fuggire lontano, nei fatti-. Poi, con gli anni, quel nocciolo crudele che ogni giovinezza si porta appresso, quel cemento dell’anima, si scioglie e torniamo da dove siamo scappati, nonostante le storture, l’estraneità provata anni prima, l’ostinazione con cui abbiamo dato corso alla fuga. Un giorno, si apre una crepa e dentro la famiglia si fa giorno, padre e figlio si guardano e si riconoscono, il passato, il presente, le incomprensioni, i rimbrotti, la spietatezza degli occhi di pietra si smorzano e scompaiono. Madre e figlia riprendono ad ascoltarsi, e il flusso dell’energia affettiva torna a circolare insieme alla tessitura nascosta e lieve delle giornate, la tensione si scioglie sollevata da un’ondata di gentilezza e di vicinanza (così racconta una grande scrittrice americana, Elizabeth Strout, nel nuovo romanzo Il mio nome è Lucy Barton (in uscita a maggio da Einaudi). Mi viene in mente allora una parola ebraica che indica una meravigliosa qualità dell’anima, e che prende il nome di zerizut, una sorta di sollecitudine, il calore di una vicinanza tangibile verso qualcosa che abbiamo a cuore, un termine usato nell’ebraico biblico per indicare lo zelo solerte di Abramo per la parola divina e le mitzvot. Rav Giuseppe Laras, riflette sui conflittuali e delicati rapporti tra padri e figli nel libricino Onora il padre e la madre (Il Mulino), ci parla del “riavvicinamento dei cuori” tra padri e figli, ovvero del quinto comandamento e cita il profeta Malachia “e ricondurrò il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri, in modo che, venendo, non abbia a colpire la terra con la distruzione”. Questo speciale momento, quello del “riavvicinamento dei cuori”, ha qualcosa di epifanico, e spesso giunge a noi come una folgorante rivelazione durante la festa di Pesach. «Nel bel mezzo dell’inverno, ho scoperto in me un’invincibile estate», scriveva lo scrittore francese Albert Camus, con un’espressione sontuosa. Questo è il “riavvicinamento dei cuori”, “un’invincibile estate”, questo è Pesach, questo è il greco conosci te stesso racchiuso e reso possibile dall’ebraico faremo e ascolteremo.
Fiona Diwan
In copertina: collage di Dalia Sciama.
Da sinistra a destra: Shimshon Rafael Hirsh, S.Y. Agnon, Baruch Spinoza, Filone, Franz Kafka, Sigmund Freud, Franz Rosenzweig, Maimonide.