n° 12 - Dicembre 2016

Israele e le nuove tribù del Medioriente

2016
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n° 12 – Dicembre 2016
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Caro lettore, cara lettrice,
malato da tempo, poco prima della fine avvenuta il 7 novembre 2016, Leonard Cohen, scrive la canzone You want it darker, Tu lo vuoi ancora più tetro, incredibile preghiera in forma di canto che riecheggia in maniera personale e dolente – come moltissimi non hanno potuto fare a meno di notare – il testo del Kaddish. «Si è scritto il proprio Kaddish da solo, appena prima di morire!», commentavano in tanti ascoltando sbigottiti la nuova canzone apparsa su You Tube in quei giorni. Una preghiera, dicevamo. You want it darker, Tu lo vuoi ancora più tetro. Con chi sta parlando Leonard Cohen? Che cos’è cupo e tetro? Tu, oh mio Signore, my Lord, questo nostro mondo di oggi lo vuoi ancora più nero, più cupo e bituminoso di quanto già non sia. Oh Signore, guarda il mondo che hai creato, guarda questa oscurità, ci dice un Leonard Cohen in procinto di lasciarlo.

 

Rav Jonathan Sacks, in un recente commento dedicato proprio a questa canzone ci fa notare l’anelito sacro delle parole «la più ebraica delle sue canzoni-insieme a Halleluja -. In un mondo che sta diventando progressivamente più oscuro e minaccioso, questa è una canzone per i nostri tempi. Sul ciglio dell’addio, Cohen interroga Dio, si rivolge direttamente a Lui e nel testo della canzone ripete per tre volte Hinneni!, Eccomi!, stabilendo una similitudine con l’Abraham dell’Akedat Itzchak, il sacrificio di Isacco. Malgrado la sua visione “dissidente” della vita e della religione, Cohen ci consegna un testo che potrebbe essere una tefillà, un salmo, un canto sinagogale che ripercorre le parole della parashà di Vayerà in Genesi 22. Ma anche un testo che presenta echi profondi del più famoso dei commentari, quello di Rashì», dice Sacks. Questo mondo buio è tutto dentro quell’Hinneni! ripetuto più volte da Cohen e che corrisponde anche al momento più nero della vita del vecchio patriarca Abramo; è la parola chiave della narratio che culmina nel dramma della risposta di Isacco, Sono pronto!, pronto per il sacrificio. Colpisce la bellezza, l’originalità della lettura di Sacks che sta tutta nel parallelo tra Vayerà e la canzone di Cohen. La verità della morte, l’elegia della vita, la ricerca dell’Assoluto e del senso di esistere. Parole e musica che non invecchieranno mai, neppure di un solo giorno. Perché in fondo lo sappiamo, questa è la poesia.
Di lirismo e di elegia il mondo sembrerebbe oggi avere sempre più bisogno, almeno stando anche al Nobel dato a Bob Dylan, che premia la poesia come una delle poche monete buone per una possibile cura dell’anima e del disagio contemporaneo. Poesia come un oscuro scrutare, alla ricerca di pepite di luce, vagabondaggio nelle periferie della vita. Poesia come arte di esistere, poesia pochissimo coltivata, ancor meno riconosciuta e considerata, che innalza e fa volare ma che non vale un centesimo, tutti pronti come siamo a fare della nostra indignazione, dei nostri disgusti, una professione di fede, moneta cattiva che scaccia quella buona. Dimenticandoci che la fede e il canto possono a volte salvarci. Come è successo per tanti prima di noi, da Abramo a re David a Leonard Cohen.

 

Fiona Diwan