Caro lettore, cara lettrice,
Primo Levi disse che scrivendo ritornava tra gli uomini. Era lo stesso atto di scrivere a riportarlo alla vita. La stessa cosa ci suggerisce un grande scrittore polacco, Josef Czapski, internato in un gulag sovietico nel 1940-41, insieme ad altri ufficiali sfuggiti alla strage di Katyn. Quando scrive, Czapski è nella disperazione. Se si ostina a prendere un infimo mozzicone di matita lo fa per i suoi compagni di prigionia, appunti sottratti alla morte che incombe: per raccontare che cosa? La grandezza della Recherche e la sfida di ricordare a memoria le pagine del fluviale capolavoro (“l’avrebbe mai detto Proust che un manipolo di prigionieri, dopo un’intera giornata di fame, trascorsa sotto la neve, a 40 gradi sotto zero, avrebbe ascoltato rapito la storia della duchessa di Guermantes e che io riuscissi a ricordare quell’universo di preziose scoperte psicologiche e di sublime bellezza letteraria?”). Conferenze per sconfiggere l’annientamento e la ruggine dell’anima, che testimoniano del potere del ricordo e di un modello singolarissimo di resistenza (Proust a Grjazovec, Adelphi). Al di là delle esperienze estreme da cui scaturisce la “letteratura del gulag e dei campi”, in verità “tutte le opere d’arte sono il frutto dell’essersi trovati in pericolo, dell’aver attraversato un’esperienza fino in fondo, fino a un punto oltre al quale non si può andare”, diceva una volta Rilke.
Abbiamo bisogno di rinnovare continuamente la nostra percezione del mondo ed essere pronti a cambiare noi stessi e l’ambiente che ci circonda, Sherazade ci ricorda che i racconti ci aiutano a sopravvivere, ci rendono immortali. La conoscenza immaginativa è la sola in grado di ridare vigore al senso della vita, suggerisce la scrittrice iraniana Azar Nafisi, vittima della censura degli ayatollah; la conoscenza razionale invece, indossa spesso uno sguardo cupo e arcigno sul mondo, spegnendo l’innocenza e la gioia di vivere. Nel saggio La repubblica dell’immaginazione, Nafisi ci sollecita a rompere le righe: la scrittura è sovversiva, la lettura è il miglior nemico delle dittature che, non a caso, la vietano. Nella visione ebraica, la conoscenza immaginativa prospera nella tradizione haggadica e midrashica, in quella misticheggiante o secolare del racconto yiddish. La lettura della Torà e dei Midrashim, troppe volte vietati da zar, cosacchi, califfi, arcivescovi e pontefici, ci hanno sempre reso consapevoli di quale senso di libertà e fuga immaginativa portassero in dote queste letture.
Oggi, l’eccesso di informazione, il voyeurismo dei social media e la teatralizzazione delle emozioni, i toni sguaiati a cui -nostro malgrado -ci trascina la comunicazione social, alimenta una mentalità pugilistica e adrenalinica che va nella direzione opposta. Sia chiaro, non sono passatista e questa non è retroguardia. Non snobbo i social media. E’ solo un piccolo senso di dissipazione quello che avverto. Qualcosa di molto lontano da quella silenziosa vicinanza a se stessi e al proprio nocciolo profondo che ha potuto generare le pagine di Czapski, Primo Levi, Nafisi. Chi sono allora i veri sommersi e chi i veri salvati?, liberi nella prigione o prigionieri nella libertà?
Ci siamo appena lasciati alle spalle la doverosa ufficialità del mese di gennaio, con i sempre più numerosi eventi della Giornata della Memoria. Eppure, oggi, l’unica possibile verità della memoria è quella che coltiva, -come dicevano Nabokov e rabbi Nahman di Breslav,- “la passione dello scienziato e la precisione del poeta».
Fiona Diwan