Caro lettore, cara lettrice,
di questi tempi, sarebbe utile imparare a praticare la difficile arte di vedere il bicchiere mezzo pieno. O perlomeno provarci, specie nel periodo di Pesach che ci prescrive l’impegno morale di non far lievitare gli umori, l’Ego, le idiosincrasie, la negatività. Perfino a dispetto delle più fosche evidenze dell’attualità, dalle snervanti impasse politiche di casa nostra alle moltitudini esauste di migranti in arrivo, dall’antisemitismo all’economia in crisi… Certo, nel dettaglio c’è un piccolo dittatore turco alle porte, un sultano, Erdogan, che aspetta l’esito di un referendum cruciale (il 16 aprile 2017) per lanciare la bomba demografica sulle distese incanutite della vecchia Europa, ovvero far invadere con milioni di profughi l’Europa che lo ostracizza, giocando sulla più profonda delle sue paure, quella di ritrovarsi minoranza tra le proprie mura domestiche. Certo, c’è la miscela tossica di vittimismo e aggressività (siamo stati offesi, ora mostreremo al mondo chi siamo; siamo stati umiliati, ci vendicheremo), che avvelena parte del mondo arabo e le banlieu delle nostre città, che imbarbarisce il dialogo tra le religioni e riaccende i nazionalismi d’Europa. Certo, c’è la retorica impazzita del “forsennatamente corretto” che affligge la nostra vita civile eliminando dal linguaggio quotidiano parole ritenute poco rispettose di musulmani, femministe o gay (anche le semplici parole “mamma” e “papà” diventano nei certificati di nascita progenitore A e progenitore B). Fino a tappare la bocca a chiunque, dandogli semplicemente dell’“impresentabile”, aggettivo scagliato come un insulto a chi non la pensa come noi. Eppure, il pessimismo è una scelta troppo facile per essere praticata, è l’indignazione di intellettuali e politici troppo comodamente auto-assoltisi dal compito di trovare soluzioni vere. In fondo, l’umanità non è mai stata così ricca, sana e longeva, così alfabetizzata e solidale, malgrado le sciagure, ci fa notare seraficamente lo scrittore inglese Ian McEwan, nel suo ultimo romanzo (Nel guscio, Einaudi). E meno male che a tirarci su il morale arriva anche Israele, unica società in cui l’esperimento di una multietnicità sostenibile sembra decentemente riuscito, Paese in cui, a dispetto delle disparità sociali, scandali interni, perenne condizione di assedio, esiste un’autentico dibattito su libertà, dissenso e diritti civili, sull’eguaglianza sociale e sull’equilibrio tra sfera religiosa e secolare. Basterebbe gettare uno sguardo alla produzione di serie TV israeliane, alcune veri capolavori, per avere il polso del Paese. Da Fauda (realistica e folgorante fotografia dei rapporti tra israeliani e arabi dei Territori) a Shtizel (un ritratto sfaccettato del mondo haredì di Mea Shearim), fino all’ultima esilarante serie Nebsu, che introduce la cultura etiope e falasha nei tinelli israeliani, toccando in chiave comica il problema dell’integrazione. Come ci fa capire un altro scrittore, l’israeliano Eshkol Nevo, nel suo romanzo Tre piani (Neri Pozza), un Israele specchio della nostra modernità con le sue inquietudini, disagi, irresolutezze, ombrosità ma capace di riscattarsi nella comicità, nel paradosso, nella gioia epifanica di una mattinata in un giorno di festa.
Fiona Diwan