Caro lettore, cara lettrice,
sono questi i giorni in cui quel mattatoio che è la guerra in Siria “esplode” con una violenza che non possiamo più ignorare. Mentre Aleppo brucia, scorrono, come una moviola all’indietro, le immagini di Srebrenica dove, non più tardi di 20 anni fa, nel cuore dell’Europa, fu consumato il massacro di più di 10.000 persone, uccise a sangue freddo dalle bande dei nazionalisti serbi.
Sono i giorni, questi, in cui si consuma la definitiva sconfitta dell’Onu, la sua pusillanime inutilità, burosauro bloccato dai soliti veti incrociati, come ai tempi della Guerra Fredda. Mentre la Siria si inabissa, rivediamo la stessa inanità dei giorni in cui i caschi blu olandesi dell’Onu si tapparono il naso ignorando l’odore del sangue di Srebrenica, con le sue migliaia di civili uccisi e nessuno che alzava lo sguardo.
Aleppo è stata un crocevia di civiltà, situata sulla principale direttrice tra Oriente e Occidente, città-rifugio per fuggiaschi del mondo ottomano, universo di commerci e di scambi che si consumavano in uno dei mercati più antichi del pianeta fin dai tempi dei Fenici. Aleppo, dove è nato mio padre, era una città aperta e magnifica, Aleppo, da cui mia nonna fuggì fortunosamente su un carretto di fieno all’indomani del pogrom e dell’incendio della Grande Sinagoga, conobbe una comunità ebraica che per secoli, dal 1300 al 1958, seppe custodire il più antico manoscritto del testo masoretico della Torà, il Codice di Aleppo, su cui lo stesso Maimonide aveva studiato. Una civiltà in fumo, insieme con i suoi abitanti, bambini, donne, vecchi oggi intrappolati come topi sotto il fuoco di una spietata coalizione composta da russi, truppe regolari di Bashar Assad, Hezbollah, volontari sciiti comandati dagli iraniani. Il mondo tace, adesso come ieri, in un silenzio che paralizza e sconvolge.
Sono questi i giorni in cui ci interroghiamo sulla Memoria della Shoah – su come renderla attuale-, e sui genocidi del nostro tempo (vedi pag. 20). Sommersi, salvati, salvatori, storie di coraggio di ieri e di domani. Mi viene in mente il premio Nobel 2015 per la letteratura, Svetlana Aleksievic, nell’eccezionale reportage Gli ultimi testimoni (Bompiani), uscito in Russia nel 1985 e poi subito censurato dai sovietici: la Aleksievic narra le storie amare e senza tempo di bambini-testimoni della guerra, sopravvissuti ai nazisti solo perché nascosti, per giorni, sotto i cadaveri dei genitori – ieri in Bielorussia oggi in Siria -. Mi viene in mente, ancora, la storia di quell’uomo straordinario che fu Janusz Korczak, pediatra ed educatore geniale, fondatore della Casa dell’orfano di Varsavia che rinuncia a una brillante carriera di scienziato per crescere i suoi bambini. È una celebrità: nel 1942, quando arriva l’ordine della deportazione, c’è pronto per lui un salvacondotto. Lo straccerà, scegliendo di morire a Treblinka con i suoi 203 orfani. Quel giorno, dice la leggenda, Korczak fece vestire i piccoli con gli abiti migliori. Marciarono tutti verso l’uscita del ghetto di Varsavia. Difficile immaginare 203 bambini puliti, lavati e pettinati che si avviano al macello col grembiulino dei giorni di festa. Questo era Korczak. Non omnia moriar, non tutto muore. Era un eroe, non un santo. Ognuno di noi può essere un eroe, se lo vuole. A Varsavia, ad Aleppo o a Mosul.
Fiona Diwan