Caro lettore, cara lettrice,
quando riflettiamo su come pensare la Storia dovremmo diffidare di un demone molto seducente e pericoloso: il demone della generalizzazione. Guardarci dal classificare ogni fenomeno con un’etichetta rassicurante, confezionarlo e numerarlo per meglio riporlo sullo scaffale ordinato delle nostre conoscenze. Un demone della generalizzazione che ci porta a trasformare un campo così mutevole come quello della Storia, «in un ufficetto pulito dove guerre e rivoluzioni giacciono assopite nei loro faldoni in modo che possiamo comodamente compulsare le ere del passato…», scriveva Vladimir Nabokov nel 1926, nel testo di una conferenza. Insomma, che dovremmo rifuggire come la peste l’idea che l’umanità abbia per destino un’implacabile e univoca direzione di marcia, per usare ancora le parole di Nabokov; ed evitare così di diventare dei rozzi piazzisti di secoli con il cartellino del prezzo appiccicato a ogni periodo.
Mi è difficile immaginare due scrittori così lontani come Nabokov e Primo Levi. Eppure, entrambi furono due poderosi distruttori di stereotipi e la pensavano allo stesso modo in fatto di pericolosità delle generalizzazioni. Anche Primo Levi ha regalato molto alla storiografia: la fuga dalle ovvietà, il concetto di zona grigia, indicazioni di metodo, critica a stereotipi e pigrizie mentali. Come Nabokov, anche Levi amava i vortici e detestava i messaggi e i luoghi comuni. «Prego il lettore di non andare in cerca di messaggi. È un termine che detesto perché mi mette in crisi, perché mi pone indosso panni che non sono i miei, che anzi appartengono a un tipo umano di cui diffido: il profeta, il vate, il veggente. Tale non sono: sono un uomo normale di buona memoria che è incappato in un vortice, che ne è uscito più per fortuna che per virtù e che da allora conserva una certa curiosità per i vortici, grandi e piccoli, metaforici e materiali…», diceva Levi a cui dedichiamo lo Speciale di 9 pagine in questo numero.
Primo Levi accetta la marginalità, si siede sulla soglia della Storia e parla agli studenti, non sempre convinto che gli itinerari della memoria siano le vie per l’avvenire. Ha capito una cosa: che la mente a volte si offusca, scivolando nella realtà gelatinosa di una percezione straniante della vita, anticamera del Nulla e del non-senso. Come è capitato a lui. Oggi, contempliamo con meraviglia quelle piccole creazioni in filo di ferro scaturite dalla dolente creatività dello scrittore torinese, la farfalla (simbolo di libertà ma anche di morte,- vedi in copertina-), il cammello (simbolo di esotismo), la maschera a forma di gufo, con cui amava ritrarsi e «con cui Primo Levi continua a trasformarsi, a rivelarsi e nascondersi…», scrive il critico Marco Belpoliti. Levi volle affidare alle sue esili creazioni in ferro e rame, il senso della metallica precarietà di cui si sentiva ostaggio. La maschera del gufo è un autoritratto, un animale notturno, nascosto nell’oscurità e protetto da una penombra opaca e solida. Levi ci insegna il buio, l’esperienza della notte, il disincanto e l’innocenza. In una dimensione esistenziale eterna e umbratile, qui e ora, ovunque.
Fiona Diwan