Caro lettore, cara lettrice,
a volte dipende uno da che parte sta, in quale tipo di humus mette radici, da chi ama circondarsi, a quale famiglia di amici appartiene, ma insomma la vita comunitaria diventa a volte particolarmente faticosa e la tentazione di sottrarsi, forte. Allora, schivare il desiderio dell’Aventino, alzarsi con un colpo d’ala e guardare a se stessi come da una finestra al primo piano per considerare sé e gli altri come parte di un tutto – a dispetto delle differenze di pensiero e convenienza-, diventa un esercizio quanto mai urgente sebbene tutt’altro che semplice. C’è chi ci ha provato fino alla fine, non sottraendosi mai al dovere di uno sguardo d’insieme e mai abdicando a coltivare una sensibilità collettiva. È il caso di Rav Giuseppe Laras, che di quella conflittualità soffrì moltissimo, lui che oggi se ne è andato da questo mondo con un saluto che ha il profumo affettuoso e insieme severo di chi non rinuncia fino all’ultimo al dovere dell’Ahavat Israel, l’amore difficile e non sempre corrisposto per il proprio universo di appartenenza.
Negli ultimi anni, quelli della vita interiore e pensosa, lo sguardo sulle persone e sulle cose erano diventati la sua arte e si traducevano in scrittura. Per questo Giuseppe Laras prendeva così spesso la penna lasciandosi trascinare dall’ardore e dalla veemenza. Laras, negli ultimi anni, viveva nel mondo ma lo faceva con uno sguardo alla Montaigne, un po’ dentro un po’ fuori, ironicamente burbero, vitale e caustico, come ben sa chi lo conosceva. Rivestiva la profondità di cose semplici e la semplicità di cime abissali, frequentando quei filosofi dell’ebraismo medievale e rinascimentale che tanto amava (in special modo la figura di Leone da Modena), fin dai tempi della sua formazione intellettuale, quella avvenuta con Georges Vajda, che gli dischiuse l’universo del pensiero medievale giudeo-spagnolo. Tempo fa, Rav Laras mi aveva chiesto di presentare due dei suoi libri più recenti, quello dedicato al quinto comandamento, Onora il padre (Laterza) e i due volumi della storia del pensiero ebraico Ricordati i giorni del mondo (EDB). Durante quegli incontri avevamo anche parlato di quanto amasse la prosa di Aaron Appelfeld e il suo modo di narrare l’esperienza della Shoah, e di quanto provasse una certa antipatia intellettuale per Umberto Eco, campione di una cultura Post-moderna e Pop che, con il suo senso ludico e infantile, disimpegnato e amorale, era quanto di più lontano ci fosse dall’approccio ebraico. È vero che la vecchiaia rende più pessimisti e amari? O forse più lucidi? Gli articoli degli ultimi anni erano proprio questo, lucidi e impegnati, chiari e distinti, ma anche turbinosi e a volte profetici. Di fatto, come per Montaigne, anche Rav Laras sapeva che è un illuso chi pensa di esercitare un dominio sul proprio destino e che siamo tutti in libertà vigilata, in balia di eventi che non controlliamo. Ma come ebreo e studioso, animato da una profonda emunà, sapeva tuttavia che nella vita non c’è nulla di casuale, che esiste una razionalità divina nelle cose e nel destino, la cui comprensione ci è preclusa. Il suo fare ruvido, il suo rigore razionale e affettuoso ci mancheranno.
Fiona Diwan