Caro lettore, cara lettrice,
in questa nostra era digitale dove tutto si conserva ma di nulla si ha ricordo, e dove la bulimia dei like svanisce pochi minuti dopo per correre dietro al prossimo post, mi colpisce notare una forma generale di oblio, una “fine della memoria” solo apparentemente contraddetta dalle varie giornate a tema Memoria, tanto sensate quanto stravaganti (giornata dei Giusti, giornata del ricordo delle Foibe, della giustizia sociale, della lentezza, della felicità, delle donne, delle malattie rare, la giornata internazionale del gatto, della pizza italiana, dei pinguini, dell’alfabeto Braille…, solo per citarne alcune). Mentre prolifera questa stupefacente attitudine celebrativa, mentre le memorie digitali diventano obese e nulla si cancella nell’immenso archivio di Internet, ecco che tutto si consuma e si esaurisce in un eterno presente, una dimensione orizzontale dove c’è talmente tanto da non lasciare spazio al passato e alla sua dimensione verticale. L’orizzontalità della Rete non prevede l’organica comprensione di un fenomeno, tutt’al più basta a trasmettere un sentiment, una percezione generica e emozionale, in una totale mancanza di autorevolezza morale di siti e blog, con la loro fratturata lettura della realtà.
Fa bene quindi riprendere in mano l’opera di Primo Levi oggetto oggi di una traduzione completa in lingua inglese nonché di una recente e bella biografia di Ian Thomson, Una vita, Utet (vedi pag. 18). Leggere queste pagine ci suggerisce che l’esperienza del ricordare è a cuneo, è uno zoom e non un grandangolo, che la memoria umana è selettiva, quella digitale no, e che più ci troviamo di fronte a archivi globali che non dimenticano niente, più ci ritroviamo sbalestrati nella nostra capacità di dominare processi mentali in grado di trasformare in narrazione quello che ci succede intorno. Sospinti dalla velocità tecnologica, viviamo immersi in un eterno presente affollato di memorie, ma senza una memoria in grado di direzionare emozioni e capacità di ragionamento.
Ecco perché leggere (o rileggere) Primo Levi ci regala oggi un grado zero dell’autonarrazione da cui tutto potrebbe partire. Soprattutto quel rapporto tra contingenza e assoluto, tra istante e durata, tra pienezza di senso e dispersione proprio dell’esperienza ebraica nei millenni. Un’altalena tra universalismo e particolarismo, tra individuo e società, di cui Primo Levi è testimone assoluto. Una doppia dimensione che è costata cara, visto che il mondo non capiva mai chi fossimo veramente, chi erano questi ebrei così uguali e così diversi, così simili e insieme dissimili, con il loro incomprensibile essere dentro e essere fuori al corpo sociale, immersi in una dimensione parallela non decodificabile. Una identità percepita come nebbiosa e sfocata su cui è stato facile proiettare tutto il peggio, dando corpo fisico alle paure. Ieri come oggi. In un presente dove tutto si conserva ma di nulla si ha ricordo.
Fiona Diwan