Caro lettore, cara lettrice,
come si può raccontare oggi quel 14 maggio del 1948, data di nascita dello Stato d’Israele? Iniziando forse con quel «se lo volete non sarà un sogno», pronunciato a Basilea nel 1897 da Theodor Herzl, durante il Primo Congresso Sionista. O ancora, con quel «chi non crede ai miracoli non è realista», di Ben Gurion. Sogno, prodigio, miracolo, utopia, visione: parlando della nascita d’Israele viene spesso scomodato un universo semantico che abitualmente richiama una narrazione profetico-messianica e un orizzonte redentivo. Un sogno realizzato. In verità, adottando uno sguardo storico, la nascita dello Stato d’Israele fu l’esito di una “finestra di opportunità” che il genio politico di Ben Gurion seppe cogliere al volo, ovvero un momento politico unico e raro, accompagnato da un plauso concorde di tutte le nazioni e generato da un concorso di circostanze irripetibile. Per opinionisti e gente comune oggi, il miracolo di Israele è la sua democrazia, un fiore prezioso in una delle zone più violente e ostili al mondo, in cui le logiche tribali non hanno mai smesso di dettare legge. Per altri ancora, resta un accadimento che, nella percezione dei circa 15 milioni di ebrei del pianeta, è sentito come qualcosa di vertiginoso, capace di suscitare un senso di incredula stupefazione mista a un sentimento di orgoglio e a un senso di vulnerabilità che nessun asset di superpotenza militare può tacitare.
Dice David Grossman che all’indomani della Seconda guerra mondiale, furono i padri fondatori a decidere che qui sarebbe dovuta sorgere una democrazia. «Ma la radice segreta e profonda della nostra identità si dipana dalla Torà, dove è scritto che il popolo ebraico è “straniero” al mondo, come Avraham che è il primo a venire definito ebreo, alla lettera “colui che sta dall’altra parte”. Il miracolo di Israele è che ci portiamo dietro questa incertezza, questo senso di provvisorietà connaturata alla stessa esistenza umana». Per un altro scrittore, Amos Oz, Israele non è solo un sogno realizzato, ma «siamo una federazione di sogni dove ciascuno ha il suo. E molti di questi sogni si contraddicono a vicenda», in un pluralismo dove ogni posizione e status convivono, la Mitteleuropa e le Mille e una notte, il pastore errante dell’Asia semitica e l’ultraortodossia ebraica, gli zeloti punitivi accanto al gay pride e all’America scollacciata in formato Miami-Tel Aviv, l’uomo del campo con l’uomo della tenda con l’uomo dell’algoritmo. «Qui tutto è aperto. Si litiga ma quasi mai si viene alle mani. Siamo attaccabrighe vegetariani», dice Oz.
I dubbiosi, si sa, sono solo dei sognatori col cuore spezzato. Così, per i 70 anni dello Stato d’Israele, c’è anche chi sostiene che ci sia poco da festeggiare. Che il panorama politico è deprimente malgrado la crescita economica, i successi scientifici e tecnologici, la start-up nation. Voci di israeliani e amici italkim mi hanno confessato di volersi tenere lontani dal mood celebrativo e dai balli nelle strade. C’è chi, amaro, sottolinea la degenerazione delle istituzioni, chi s’immusonisce sulla deriva politica di una leadership che semina divisioni. Chi addirittura sostiene che 20 anni dopo l’uccisione di Itzchak Rabin, la fisionomia politica di questo Paese sia in generale molto più vicina a quella dell’assassino che non a quella dell’assassinato. Sono voci sofferte, deluse, voci israeliane lontane dai nostri toni diasporici che guardano a Israele in modo idealizzato. Una sola evidenza resta vera: nato in condizioni disperate, Israele ha avuto il coraggio di esistere e prosperare, malgrado le difficoltà. E questo è forse l’unico messaggio che questo minuscolo Paese ha da dare al mondo. Adesso Israele compie 70 anni, un numero che in Ghematria esprime l’Infinito ma anche la Chochmà, la saggezza della maturità e la pienezza della condizione adulta. Il migliore augurio, questo, che si possa fare a chiunque. Come dice Amos Oz, «ho paura del fanatismo e della violenza. Ma sono contento di essere cittadino di uno Stato che conta otto milioni e mezzo di profeti, otto milioni e mezzo di Primi ministri, otto milioni e mezzo di Messia. Qui non ci si annoia mai».
Fiona Diwan