Dossier Cento anni fa i soldati ebrei al fronte celebravano Rosh HaShanà e finiva la Prima Guerra Mondiale. Ieri come oggi, l’ebraismo si interroga su che cosa significhi il bene comune e la responsabilità collettiva. Sia come cittadini di uno Stato, sia come membri di una comunità. Una riflessione attualissima sul Capodanno ebraico come grande occasione per una teshuvà individuale e di tutta la keillah. E per interrogarci sul nostro senso di appartenenza
Caro lettore, cara lettrice,
confesso che ultimamente mi coglie la spiacevole sensazione di non essere più in grado di leggere il mio tempo, di decodificarlo, né di riuscire ad afferrarne appieno i fenomeni e le dinamiche. Avverto così un sottile senso di spaesamento e di alienazione rispetto al mio tempo storico verso il quale sono sempre stata sollecitata – per il lavoro che faccio -, a fornire una lettura o un’interpretazione. Credo che per un giornalista, – ma lo è per chiunque -, ci siano poche cose altrettanto malinconiche e frustranti: l’avvertire un certo disagio nello scoprire che idee, concezioni, posture che credevamo acquisite e note, in verità non lo sono più così tanto; il senso di vivere “fuori fuoco”, di non sentirsi più a proprio agio con i linguaggi espressivi e con realtà che troppo velocemente si modificano, percepire se stessi come vagamente inattuali, lievemente anacronistici. Chi non l’ha provato? In effetti siamo figli dei nostri paesaggi interiori, scriveva l’inglese Lawrence Durrell, siamo l’espressione di una geografia generazionale condivisa, con le sue bussole di riferimento, le sue mappe, il suo stile, i suoi oggetti, il suo lessico, il suo modus pensandi, la sua etica, i suoi eroi. Ciascuno, prima o poi, è destinato a sperimentare l’erosione del proprio universo di riferimento, cercando – con un po’ di coraggio -, di resistere alla tentazione di rifugiarsi su un Aventino rassicurante, chiudersi a rivedere i film della propria epoca, a rileggere i classici del passato o a coltivare il nutrimento gratificante del proprio Sé identitario (ebraico, nel nostro caso). Quello stesso senso di spaesamento lo provarono probabilmente quelle “centomila gavette di ghiaccio”, quei reduci dalla Grande Guerra (di cui ricorre il centenario), che vent’anni dopo videro con orrore i propri figli scagliati in un nuovo conflitto; lo hanno provato i militanti comunisti ammutoliti di fronte al crollo dell’Unione sovietica, oppure i post-sessantottini spelacchiati di adesso di fronte ai propri figli sdraiati su lap top, divani e video giochi… Così, oggi, ad alcuni di noi capita di svegliarsi in un Paese nuovo, in un’Europa sorniona che sdogana atteggiamenti che erano un tabù fino a ieri, xenofobia e antisemitismo (come ad esempio l’ondata di aggressioni e attacchi a ebrei in Germania, nell’ultimo mese, che non ha quasi suscitato eco o reazioni, nell’assuefazione generale, in un’Europa rassegnata a vedere di nuovo colpiti i propri ebrei a soli 73 anni dalla Shoah). Capita a chi, come noi, si ritrova a vivere in un continente, l’Europa, tra i più belli, ricchi, fortunati del pianeta, e a sbalordire di fronte a dinamiche e meccanismi che pensavamo fossero sradicati per sempre: ad esempio una Spagna che ha aperto le braccia al BDS, Spagna che è il Paese europeo più ostile a Israele (il leader del terzo partito spagnolo, Pablo Iglesias Turrión a capo di Podemos, ha definito lo stato ebraico un “paese criminale e illegale”), e dove un intellettuale e letterato illustre come Antonio Gala, parlando di Gaza, ha scritto che gli ebrei hanno “meritato” l’espulsione dalla Spagna nel 1492. Un senso di spaesamento si diceva, che non è frutto di disincanto senile quanto forse di un peregrinare dell’anima e dell’intelligenza che non riescono più ad accomodarsi in nessun luogo né a sostare dentro nuovi paesaggi della modernità. Eppure, soccombere a questo senso di rinuncia e abdicazione sarebbe moralmente sbagliato ed esistenzialmente vile. Il nuovo anno che ci aspetta dovrebbe iniziare sotto gli auspici del coraggio e della fiducia, esito entrambi di una strada di teshuvà che guarda indietro per generare un movimento in avanti, che si interroga sul passato per far sì che l’anno che si apre sia più lucido e fecondo.
Fiona Diwan