Caro lettore, cara lettrice,
pochi oggi conoscono o ricordano il personaggio di Mario Levi, che arrivò last minute nella Palestina mandataria del 1941, lasciando Trieste per un kibbutz nella valle del Giordano, appena in tempo prima che le rotaie dei treni sprigionassero scintille di morte sotto convogli sgomenti. Il destino di Mario Levi somiglia a quello di un altro grande dimenticato, Albert Sabin, il geniale scopritore del vaccino antipolio a cui mezzo mondo deve la salvezza appunto dalla poliomielite. Come Sabin, anche Mario Levi fa parte di quelle figure defilate e rilucenti, che si ergono senza far rumore tra le pieghe della Storia, anime entrate di soppiatto -e senza lustro visibile-, nella hall of fame del XX secolo: Sabin dal ghetto di Byalistock fino al New Jersey, Mario Levi dalle zolle del Carso e Trieste a quelle del Giordano. Ma chi era Mario Levi? Mancato oggi, all’età di 94 anni, è stato il padre dell’agricoltura biodinamica, arrivato al kibbutz Sde Eliahou a 17 anni, vanga e moschetto, paludi da asciugare, semi da piantare, zanzare, niente masgan (climatizzatore) che addolcisca i 40 gradi di giornate infuocate. Passano decenni di concimi chimici e pesticidi, usati a pioggia nei campi, e Levi capisce che qualcuno deve mettere fine a questa intossicazione planetaria sia dei doni della terra come dell’uomo, che quei frutti se li mangia. Così, il demone di una agricoltura diversa, finisce per occupare, manu militari, la sua mente. Osservare, testare, imitare le strategie della natura, cacciare ciò che nuoce senza perdere di vista la crescita produttiva. Un pensiero che inizia a trovare consensi, in Israele, nel mondo, in Italia, dove Giulia Maria Crespi, Presidente onorario del FAI e pioniera del biodinamico nel Belpaese, non smette di omaggiare Mario Levi come uno dei padri fondatori della rivoluzione Bio e maestro dell’industria agricola organica. Per Mario Levi, sionista, socialista, umanista, si trattò sempre e solo di una mitzvà, animato com’era da un rispetto religioso per la natura. Si battè come un leone per convincere i colleghi agricoltori ad adottare i suoi sistemi. All’inizio fu preso per matto ma la gente vedeva che il canto della terra non aveva segreti per lui, riusciva a capire con uno sguardo se un pomodoro era sano o di che cosa quel certo terreno aveva bisogno. Non si fermò davanti a niente ed è oggi, all’indomani dalla sua morte e nei 70 anni di Israele, un esempio di pensiero laterale, un cavaliere coraggioso con il kova tembel in testa.
Difficile immaginare qualcosa di più lontano dal narcisismo amichevole dei nostri giorni, dalla dittatura dell’Io sacralizzata dall’imperativo di “essere se stessi” (realizzare se stessi, parlare di se stessi, ascoltare se stessi, perdonare se stessi), meglio se in mondovisione social. Un’obesità dell’Io di cui, né Sabin né Levi, avrebbero mai sospettato l’esistenza, felicemente austeri nella loro dedizione all’oggetto della loro ricerca, eccezionali nella loro normalità, chini sul “bene possibile”, quello meno eclatante, il bene della porta accanto che però richiede tenacia, e la capacità di mettere in valore la dimensione plurale, il percepirsi come collettività. Poiché in fondo, la ricerca del bene è sempre un Noi e mai un Io.
Fiona Diwan