Mistificata e banalizzata. Trasformata in una icona pop, buona per tutte le stagioni, dal pacifismo, alla new age, dal negazionismo alla politica, allo sport. Sfruttata da razzisti e antisemiti. Un simbolo pret-a-porter. La sua immagine tutto sembra essere meno quella di una ragazzina vera, morta in un lager nazista. Ecco un’inchiesta-denuncia
Caro lettore, cara lettrice,
pochi di noi conoscono il nome di Rona Ramon, morta all’età di 54 anni un paio di mesi fa, moglie e madre coraggio di Israele. Ed è curioso che la prima impresa aerospaziale israeliana e lo sbarco sulla Luna della navicella Bereshit, previsto per l’11 aprile, quasi coincida con la scomparsa di questa figura femminile. Un’odissea nello spazio che farà di Israele il quarto paese al mondo a inviare una sonda sulla candida superficie lunare. L’allunaggio e il fine vita di una donna. Ma che c’entrano l’uno con l’altro questi due eventi, direte voi? C’entrano, c’entrano. Perché Rona era la moglie di Ilan Ramon, il primo e unico astronauta israeliano, un genio dell’aviazione, un principe del cielo capace di salire nella gerarchia dell’aria a tal punto da essere il prescelto per una missione spaziale Usa, Ilan che si schiantò nel 2003 a pochi minuti dal rientro e a una manciata di chilometri da terra per un guasto tecnico della navicella spaziale Shuttle Columbia a Cape Canaveral. Ma Rona era anche la madre di un altro prodigioso fuoriclasse, Asaf Ramon, giovane pilota di aerei da combattimento abbattuto in volo nel 2009, durante una missione, in una comunione di destino col padre che lascia tramortiti.
Rona non ce l’ha fatta a sopravvivere a quelle due tragedie ed è oggi un’eroina dell’Israele contemporaneo. Rona appartiene all’aria, al sogno che sedusse e uccise i suoi uomini. E oggi anche lei. Il suo senno perduto e il suo coraggio di combattere viaggiano negli spazi siderali, inscritti dentro la navicella Bereshit che attraccherà sulla Luna tra circa un mese, la sua vicenda raccontata accanto a dischetti digitali contenenti canzoni e disegni di bambini, accanto al racconto di un sopravvissuto alla Shoah, vicino a un volume della Torà. La navicella sarà lasciata sulla Luna come testimonianza per le generazioni future, per chi un giorno, fluttuando nell’iperspazio e sbarcando in queste lande siderali, vorrà connettersi alle storie di altri uomini e donne venuti prima di lui e poi ancora più indietro, fino alla genesi di tutto, Bereshit appunto.
Testimoniare, tramandare. Ma sappiamo davvero farlo? Che cosa possiamo ancora trasmettere?, si chiede all’indomani dall’aggressione subita a Parigi dai gilet jaune, il filosofo francese Alain Finkielkraut. È possibile riannodare il filo spezzato tra le generazioni e colmare la distanza imposta dalla forsennata accelerazione tecnologica che condanna le famiglie a non più capirsi né ascoltarsi? Sì, è possibile, risponde Finkielkraut, a patto di sapere chi sei e di ricordarlo con pacatezza e spirito mite, senza frenesia identitaria. Chiedendo, come fece re Salomone sulle alture di Gabaon, un cuore intelligente e perspicacia affettiva, uniche chiavi concesse per trasmettere qualcosa. Perché persino in questa nostra epoca post-identitaria è possibile ancora tramandare, lanciando tra le stelle un messaggio in bottiglia. Così, anche noi e i nostri pronipoti, come nell’Orlando furioso, potremo andare a cercare il senno perduto sulla Luna, finendo per incontrare la storia di Rona Ramon e dei suoi uomini.
Fiona Diwan