È la lezione dei Giusti dell’Umanità contro il razzismo, l’intolleranza, l’odio gratuito, oggi onnipresenti nel linguaggio comune e politico. A questo
si ispira l’impegno di Gabriele Nissim, presidente Gariwo.
Il primo Giusto fu Abramo che mercanteggiò col Padreterno la salvezza di Sodoma. E poi vennero uomini e donne mai disposti a cedere la propria coscienza
e senso di umanità per il piatto di lenticchie dell’interesse personale o dell’ideologia. Testimoni dell’urgenza di agire, ieri come oggi, in un’Europa in bilico tra indifferenza e responsabilità
Caro lettore, cara lettrice,
Pesach è un tempo di guarigione. È un nuovo inizio, non è solo quello dell’energia germinale che pulsa in ogni gemma e preme dai primi germogli dell’albero. Pesach è il tempo della tartaruga che mette fuori la testa dal carapace per uscire dal rigido inverno del cuore e dell’anima, dal freddo di certe stagioni della Storia; la tartaruga ha vissuto il tempo dell’attesa dentro quel guscio diventato nel frattempo parte del suo corpo, come l’Egitto per il popolo d’Israele. Un Israele talmente colonizzato da un Egitto interiore da aver bisogno di 40 anni di vuoto e sabbia per spurgarlo da sé e prenderne le distanze.
Ho sempre pensato che è a Pesach che l’anima ebraica guarisce, un nuovo inizio, un altro capodanno, il mese di Nissan come un Tishrì ma senza lo Shofar del risveglio, con intatta la vertigine di una nuova ripartenza.
Pesach è il tempo per ricomporre l’infranto, direbbero gli psicologi. O per affinare, come invece affermano i giapponesi, l’arte del vaso rotto, la riparazione di un vaso finito in mille pezzi e rimesso insieme da un prezioso filo d’oro che riaccosta e risuggella i cocci frantumati, ricomponendoli in una nuova armonia e rendendo così il vaso ancor più pregiato di prima. (È curioso notare come questa immagine dell’arte del vaso rotto giapponese ricordi – in chiave estetica -, la teoria qabbalistica della Shevirat HaKeilim – la rottura dei vasi -, e della conseguente dispersione della bellezza e della luce divina ivi contenuta; così, come è noto, compito dell’uomo è ricucire e riparare, ricomporre l’unità cosmica infranta riportandola nei vasi rotti).
Accadono cose più grandi di noi, che ci fanno percepire in un attimo la nostra debolezza, la sottomissione all’esistenza. È quando siamo costretti a guardare la nostra anima che va in pezzi e chinarci a raccoglierne i frantumi, nel tentativo di ricomporla e ritrovare il disegno originario. È quando la vita ci fa disertare e frequentare le stanze della fragilità, della solitudine, della fuga altrove, dei pensieri strani, come scrive Virginia Woolf nel saggio Ammalarsi (Elliott edizioni). Chi non l’ha provato?
Bene, tornando a Pesach, viene da pensare che sia proprio questo il significato della libertà dall’Egitto: non poter tornare integri o com’eravamo prima, impresa ormai impossibile; quanto costruire una nuova interezza, accettare la cucitura preziosa del rammendo, addirittura esibirla come un capolavoro e non viverla come una frattura insanabile. Non è questa forse l’identità del deserto?
A volte, la pelle non basta per farsi toccare dalla vita, ci vorrebbe un’epidermide più vasta, larga ed estesa. Ci si libera di tutto, si dice solitamente, l’essere umano dimentica, il tempo passa e guarisce le ferite. Pesach ci dice il contrario. Che non basta il tempo per dimenticare, che c’è la fatica e il sudore della rinascita, il fastidio della sabbia che si incolla al viso, l’arida difficoltà del deserto. Pesach ci dice che per liberarsi davvero occorre ricreare. E che l’ebreo ha imparato a farlo suo malgrado, obtorto collo e ininterrottamente per quattromila anni.
Fiona Diwan