L’Israele che verrà. Concretezza e pragmatismo, guerra totale alle ideologie, ai fanatismi e al mainstream. Il lascito di Amos Oz si gioca tutto sul tavolo di una complessa arte della mediazione politica: dal sostegno a Shalom Akshav all’incontro con il nemico di sempre. I sogni e le speranze di un intellettuale che non si è mai arreso
Caro lettore, cara lettrice,
in questo inizio di 2019, ha preso il via in maniera definitiva il ritiro ufficiale di Israele dall’Unesco. Un ritiro passato pressoché inosservato. Al di là delle circostanze che l’hanno provocato – anni di violento ostracismo e di costante delegittimazione storica -, quella che sembra essere passata sotto silenzio è l’importanza simbolica dell’evento, specie se ci misuriamo con l’eredità culturale dell’Israele storico e con il suo lascito spirituale per l’intera cultura occidentale. Senza i due grandi contendenti, ebraismo e grecità, senza Atene e Gerusalemme, la cultura europea semplicemente non esisterebbe, e non sarebbero nati metà dei suoi capolavori, delle sue istanze morali, del suo orizzonte di riferimento, dal Mosè di Michelangelo al Paradiso perduto di Milton al Tractatus di Spinoza, da Mahler a Kafka, citando giusto così, a caso, pars pro toto. È una specie di sovranità spirituale quella di cui stiamo parlando.
Sorto nel 1946 sull’ecatombe della Seconda guerra Mondiale, l’Unesco avrebbe dovuto rappresentare le istanze della cultura sul piano internazionale “al fine di costruire una pace duratura” e far dialogare tra loro le differenti culture del pianeta. Il fatto che Israele ne abbia abbandonato la scena, non è senza significato. E a pensarci bene fa venire i brividi. La crisi con l’Unesco si origina ben prima della decisione del Presidente Trump di spostare l’ambasciata a Gerusalemme. E va ben al di là della più recente attualità. Si è rafforzata in questi anni insieme a ogni frammento antico, lapide o capitello dei tempi di Ezechia o Erode che venivano gettati nelle discariche dagli archeologi arabi del Waqf a Gerusalemme.
Far sparire le tracce: ovvero la distruzione consapevole di qualsiasi reperto archeologico stabilisse un nesso tra Israele e il passato ebraico, antico o recente che fosse. Una crisi, quella tra Unesco e Israele, che si è consumata ad ogni coccio millenario fatto a pezzi nottetempo dai picconi di chi vuole negare il legame tra l’Israele di oggi e la “Terra d’Israele” di ieri, ivi compresa la vicenda storica che ha testimoniato una presenza ebraica costante e ininterrotta. Un diniego, una delegittimazione che, col plauso dell’Europa, ha promosso una cancellazione metafisica e insieme spirituale dell’intera eredità ebraica, “come se oggi Ismaele e Esaù si unissero contro Giacobbe”, ha fatto notare di recente il sociologo-filosofo francese Schmuel Trigano. Come se la pulsione suicidaria, la cupio dissolvi rispetto alla propria identità, avessero preso possesso manu militari dell’immagine che l’Occidente ha deciso di coltivare di se stesso. Ora, revocare il legame di Israele con i luoghi della propria storia è un fatto di una tale violenza, di una tale menzogna e falsità, da lasciare ammutoliti. E una bugia detta ad alta voce e ripetuta molte volte, diventa una verità. E produce quell’atmosfera tossica, quell’antisionismo antisemita nel quale siamo immersi. Ma una soluzione per uscire da questa impasse tra Israele e l’Unesco ci sarebbe, suggeriscono in molti – tra cui anche lo scomparso Amos Oz -. Ovvero pensare Gerusalemme come città spiritualmente internazionale che, sotto l’egida di Israele, diventi un luogo fisico e simbolico in cui il mondo intero possa incontrarsi e riconoscersi. Una Gerusalemme po’ più terrestre e un po’ meno “celeste”. Liberata dalla sua sindrome estatica. Una città aperta, cosmopolita, una capitale di rango mondiale, una metropoli dell’anima. Capace di andare al di là del grande frastuono che ci sovrasta, per dirla con lo scrittore Saul Bellow, al di là del rumore assordante della vita piccina, al di là della politica, del gioco dei contrapposti opportunismi.
Fiona Diwan