Nel giugno del 1945 usciva il primo numero. Nato per far risorgere la Comunità dalle macerie della guerra, il Bollettino-Bet Magazine compie oggi 75 anni. Il più antico giornale ebraico italiano “militante”, vivo e vitale, ha continuato a rinnovarsi e a crescere grazie ai suoi lettori, adattandosi ai tempi e alle tecnologie, salvaguardando lo stesso spirito di servizio e di specchio della collettività ebraica. Dalla carta al web ai social network, col sito Mosaico, la pagina Facebook, Twitter e altre nuove future sfide…
Caro lettore, cara lettrice,
con i fantasmi del post-clausura arriva inevitabile l’altalena tra sollievo e smarrimento, un’euforia che dondola tra sbigottimento e dolcezza. C’è il piacere – e la titubanza – di incontrarsi, uscire, rivedersi. Un’ombra venuta dal tempo: abbiamo affondato la lama dentro giorni diventati palude, dentro quella sensazione di estraneità a se stessi, quando si è aspettato un via libera per cambiare le cose. Usciamo per strada: la nostra vita non è più tra parentesi, non tiene più in ostaggio giornate con un tempo dilatato. Lentamente, i nostri sensi vanno snebbiandosi dopo il lungo isolamento, le forze ritornano ma non del tutto, c’è la paura e il desiderio di rientrare nel mondo per riacciuffare chi siamo, ma senza riuscirci del tutto. Penetrare attraverso la vita come una lama di coltello, scriveva David Grossman citando Virginia Woolf (Mrs Dalloway). O è la lama della vita che sarà per noi il coltello? Chissà.
Siamo nel post-Covid, e questo è già una piccola svolta; alcuni di noi sono a rischio stress post-traumatico e non soltanto chi ha perso qualcuno o si è ammalato. Di fatto, un innegabile senso del limite ha messo radici dentro di noi rintuzzando la sgargiante onnipotenza del passato. È il tempo degli incontri ritrovati con gli amici, con i fratelli, con i genitori, ma con circospezione, giustamente guardinghi. Senso di essere ancora in libertà vigilata. L’ossatura delle giornate che prova a sgranchirsi le giunture, la nuova normalità che si stiracchia: c’è una diversa postura esistenziale da adottare, lo sappiamo. Difficile tornare alla vita con l’impeto febbrile di ieri e anche l’entusiasmo festaiolo mostra un braccino corto. Nessuna posa smagliante, tuttalpiù un timido vitalismo: dopo le quarantene, i saturimetri e le terapie intensive, va bene così. Il gusto della solitudine? Anche basta. Più immuni, più umani? Bah, chissà, pura retorica. Tutti abbiamo “processato” la paura, ce la siamo fatta amica, ma lei resta lì acquattata: dopo la catastrofe del respiro e l’incubo virale, riapriamo i polmoni insieme alle porte di casa, lo sguardo concupiscente rivolto all’estate che arriva, l’occhiata verso un cielo sfacciato che si riapre.
La paura non è un male di per sé: quando non ti paralizza, ti apre gli occhi. Questo domani è incerto ed è un bene che resti così. «Lascia dormire il futuro come merita. Se lo si sveglia prima del tempo si ottiene un presente assonnato», scriveva Kafka nei suoi Diari. Kafka sapeva che l’ebraismo è un “umanesimo della pazienza”, virtù da sempre bistrattata ma assurta a nuovi onori in tempi di Covid e di quarantene. Di necessità virtù. Tocca pazientare, avere fiducia, stare in campana: come scriveva lo scrittore Romain Gary, esiste una promessa fatta a ciascuno di noi all’alba della propria esistenza ed è questo che ci fa sperare che tutto sia possibile (La promessa dell’alba, Neri Pozza). È l’esperienza del deserto che lo insegna alla coscienza ebraica, il deserto con la sua vita imprevedibile e precaria, il vuoto, la solitudine, il viaggio; il deserto è il coraggio di vivere con incertezza e, nonostante l’incertezza, ancora gioire. Col virus abbiamo sperimentato per la prima volta la paura collettiva, la paura “democratica” e equamente distribuita, l’incertezza radicale di non sapere che cosa porterà il domani e quale sarà il pegno da pagare. Oggi siamo ancora nello spazio della vulnerabilità e della precarietà, per questo ci vuole la pazienza del deserto.
Fiona Diwan