Ebraismo e pandemia
Caos, confusione, paure ancestrali. Che cosa narra il Tanach sul modo in cui il popolo ebraico affrontava le malattie epidemiche? Che cosa ci dice l’ebraismo per proteggere la salute individuale e collettiva? Che cosa possiamo imparare da una situazione di emergenza sanitaria? Lo abbiamo chiesto a quattro studiosi
Caro lettore, cara lettrice, è bello imparare ad ascoltare la voce degli anziani, dei nonni, delle bisnonne, dei padri. Forse perché in questi giorni fragili sentiamo che sono loro a essere più vulnerabili. Gli strati della vita ne hanno irrobustito l’anima ma non la pelle. Così, ascoltandoli, capita che nella loro voce vibri una corda reattiva e pugnace, che coglie di sorpresa le nostre esistenze lamentose. A ricordarci che se a volte manca qualcosa alla nostra vita è perché non abbiamo guardato abbastanza in alto, incapaci di cercare “l’alba dentro l’imbrunire”, come cantava Franco Battiato 40 anni fa.
La vecchiaia è spesso un posto pieno di vita, attraversata da ondate di desiderio e di felicità; in queste settimane, vivere un tempo di sospesa quarantena ci invita a guardare bene, a guardare meglio, ci interroga sulla nostra capacità di empatia. Non si venga a dire che l’invecchiare è solo malinconia, rimpianto, porte che si sono chiuse. Per invecchiare bene ci vuole forza interiore, una capacità di luccicare attraverso i tormenti, di saltare sopra gli errori commessi, “bisogna saper guardare nel buio con insolenza”, come diceva la scrittrice Marguerite Yourcenar. Capaci di coltivare fino all’ultimo una vita che sospira, sbraita, spera, si inalbera e un cuore che continua a galoppare. I nostri vecchi ce lo ricordano: noi siamo gli strati che la vita ti strappa di dosso, quelli che inaspettatamente ti regala, quelli che ti conquisti con spietata durezza, siamo le ferite inferte e subite. Ma siamo anche capaci di un pentimento che scalda il cuore della nostra inadeguatezza.
Gli anziani lo sanno: non si ricomincia mai daccapo, si può solo andare avanti indossando gli strati che la vita ci ha tolto o ci ha dato. Non esiste il grado zero. Possiamo essere pieni di nostalgia, di rimorsi per i tradimenti fatti e subiti, per la noncuranza, per la sciatteria con cui ci siamo comportati quando pensavamo di avere tanto tempo davanti. Gli anziani sanno che si impara poco dai propri errori, che quasi non si cambia. Non si diventa saggi. Ma si capiscono più cose del dolore degli altri, della loro gioia, dei loro desideri, ammesso che il cuore non si sia accartocciato per i troppi colpi. Perciò, a partire da questo numero di Bet Magazine, troverete una serie di articoli che raccontano vita e pensieri degli anziani della nostra Comunità, in un mondo ebraico che è una matrioska di storie, un crossover di destini e avventure umane ineguagliabili (come, ad esempio, la vita di Zipora Loulai, da Mashad a Teheran, da Israele a Milano – la trovate pag. 38).
In questo tempo rallentato e rinchiuso, ci si sente un po’ come Jona nel ventre della balena, Jona che scappa a ovest pur di non recarsi nella città di Ninive: Jona non crede nella possibilità di redimerne gli abitanti, dominato com’è dal senso di giustizia (Middat-haDin), e non dal senso di speranza e misericordia (Middat-haRachamim). Jona ha perso la fiducia nel senno degli uomini, nella loro capacità di scegliere il Bene. Ma si sbaglia, non ha fede e verrà dimostrato che ha torto. Come se nel cuore di ogni inverno non ci fosse celata una primavera palpitante, come se dietro la nera cortina della notte non si nascondesse il sorriso dell’alba. In questi giorni di Pesach e all’uscita da questo strano Egitto epidemico che ci sfida, scrive rav Alberto Somekh (a pag. 13), Gam zeh ya’avor, anche questo passerà. E noi abbiamo fiducia.
Fiona Diwan