Come si stanno ridefinendo le forze politiche in campo nell’era post-Covid? La sinistra
si è polverizzata e la destra si sta frantumando più che mai. Malgrado le polemiche,
sulle vaccinazioni è stato stabilito un primato e Israele è diventata una case-history
(come ci spiega Francesca Levi-Schaffer). Ma esiste un “vaccino elettorale” capace
di restituire stabilità a un Paese che si avvia alla quarta elezione in due anni?
Caro lettore, cara lettrice,
«Il vero esilio d’Israele in Egitto è stato imparare a sopportarlo», suggerisce un celebre commento chassidico del Settecento a proposito di Pesach, ricordandoci che esiste un effetto anestetizzante dell’esilio, questo imparare a assuefarci a ciò che ci rende schiavi, la famosa comfort zone da cui è così difficile uscire persino quando la detestiamo e quando non ci piace la condizione nella quale ci troviamo immersi. È capitato a tutti, sul lavoro, nella vita privata, in certe circostanze particolari dell’esistenza, quando abbiamo pensato di non avere scelta e allora abbiamo accettato l’inaccettabile, accogliendo – per paura del cambiamento – quella parte di schiavitù con la quale ci sembrava inevitabile scendere a patti. Da qui muove l’invito pasquale a cercare un varco, un passaggio, a mangiare la matzà per cambiare passo, l’invito a dislocarci e assottigliarci, come il fine pane azzimo appunto, cambiando luogo, sia fisico sia dell’anima, attraversando un nostro personale Mar Rosso. Per ritrovare sveltezza e agilità, senza far fermentare ulteriormente un Io imbolsito e sazio. L’idea è sempre quella, immaginare noi stessi in modo diverso e trovare il coraggio di varare un cambiamento, anche piccolo ma liberatorio, una condizione in cui il pensiero assonnato si risveglia e respira, e riesce a volare un po’ più in alto, oltre le sbarre che lo rinchiudono, ovvero le nostre “dipendenze”, i bisogni che ci imprigionano, gli “idoli” di varia natura. Com’è noto, la vera schiavitù, la più pericolosa, è quella a cui ci si abitua; ma esiste la possibilità di un happy end come dimostra il fatto che alla fine dall’Egitto si può uscire, a patto di faticare almeno un po’ e lavorarci sopra, come suggeriscono la psicologia e la tradizione ermeneutica ebraica. Non è un caso quindi che su questo e altri concetti ruoti la bella Haggadà di Pesach, fresca di stampa (Belforte editore), commentata dallo psicoanalista Alberto Sonnino che dialoga con Rav Roberto Della Rocca e col giornalista e manager Dario Coen, ragionando sulle tante attualizzazioni del significato di Pesach.
Il passaggio chiave è dall’Io al Noi, dalla tribù al popolo, dalla schiavitù alla libertà che solo una dimensione collettiva può davvero consentire, poiché essere libero da solo non ha alcun senso. L’assunto è che devi «essere parte di qualcosa di più grande di te stesso prima di poter essere te stesso», scrive Rav Jonathan Sacks nel suo saggio Moralità (Giuntina), il suo testamento filosofico-spirituale uscito l’anno scorso in Inghilterra, pochi mesi prima della sua scomparsa, e adesso in Italia. Sacks ha a lungo ragionato sull’urgenza di costruire un nuovo codice morale che ristabilisca il bene comune in tempi di divisioni, la necessità di ripristinare degli standard di relazione accettabili per una collettività evoluta, in tempi nefasti di dibattito pubblico polarizzante e urlato, di un’economia delle diseguaglianze e una politica fatta dell’“io ho ragione, tu hai torto, quindi stai zitto”. «Se si perde la moralità, alla fine si perde anche la libertà», perché solo la moralità genera fiducia e la fiducia, benessere, scrive Sacks. Tutte le società basate sull’Io sono destinaste a morire, come appunto l’Egitto; perché è forte chi si prende cura dei deboli, è invulnerabile chi presta attenzione ai vulnerabili, dice Sacks. «Non c’è nessun Io attuabile senza il sostegno di un Noi».
Fiona Diwan