ELEZIONI, 17 OTTOBRE 2021- Tutti alle urne per il rinnovo del Consiglio dell’UCEI
e della Comunità Ebraica di Milano, ossia le istituzioni di governo degli ebrei della nostra città e d’Italia. Ecco le liste, i programmi, i candidati. E le nuove istruzioni per votare
Caro lettore, cara lettrice,
pochi hanno sentito parlare di Moshe Margaretten e Moti Kahana, un ebreo haredì di Williamsburg, il primo; un brillante uomo d’affari israelo-americano, il secondo; entrambi con la passione di correre in soccorso degli ebrei in pericolo nelle zone calde del pianeta. Nessuno dei due avrebbe immaginato che, da lì a poco, il loro aereo mandato in Afghanistan per portare fuori l’unico ebreo rimasto a Kabul, Zebulon Simantov, avrebbe caricato a bordo anche l’intera squadra della nazionale di football femminile insieme a un manipolo di avvocatesse e donne-magistrato a rischio di vita insieme alle loro famiglie, in totale 23 afghani e afghane alle prese col terrore del regime talebano. Per l’operazione, Moshe Margaretten era riuscito a raccogliere in quattro e quattr’otto la somma di circa 80 mila dollari presso le comunità di Brooklyn e l’aveva messa a disposizione di Kahana il quale, nel frattempo, si stava occupando di organizzare l’operazione da Israele. In segno di concitata riconoscenza per il successo del salvataggio, Khalida Popal, ex capitana della squadra di football, si era affrettata a ringraziare la Ong di Margaretten, la Tzedek Association, con un tweet postato proprio all’indomani del sanguinoso attentato kamikaze all’aeroporto di Kabul e da cui l’aereo delle calciatrici era decollato giusto in tempo. Tutti sapevano infatti quanto la nazionale di calcio femminile fosse nel mirino, e che tutte le atlete donne afghane sarebbero state presto il prossimo bersaglio dei tagliagole di Kabul, come infatti è accaduto col divieto di praticare qualsiasi sport. La raccolta fondi messa in piedi dal duo Margaretten-Kahana sarebbe dovuta servire anche per il piano di accoglienza e per aiutare i profughi al loro arrivo nei porti di destinazione.
Così sintetizzata, la rocambolesca vicenda (raccontata dal Times of Israel), non solo fa riflettere sulla mobilitazione ebraica in favore dei fuggitivi afghani ma arriva a sottolineare la percezione dell’estrema fragilità della moltitudine femminile nel quadro dell’emergenza. Anche le comunità ebraiche del mondo – ivi compresa quella di Milano e l’UCEI – si sono attivate tempestivamente con raccolte fondi, di abiti, di cibo, viveri, unendosi ad altre egregie realtà nazionali nate spontaneamente nel giro di poche settimane, come ad esempio l’incredibile rete solidale Le donne per le donne, messa in piedi dalla milanese Flora Ribera. Una mobilitazione che ha visto superata ogni differenza tra religiosi e secolari, tra laici e ultraortodossi, in nome di una volontà solidale bipartisan che ha saputo travalicare le annose querelle e diversità all’interno del mondo ebraico, testimoniando una volontà unitaria e una comunione d’intenti per nulla scontata.
Una lezione e un esempio che inducono a riflettere, specie in questa importante vigilia di elezioni ebraico-italiane in cui gli appelli all’unità e alla coesione spesso rischiano di cadere nel vuoto. E che ci interroga circa il controverso tema dell’accoglienza verso chi – come per secoli è accaduto a noi ebrei – ha a disposizione poche ore per scappare dovendo abbandonare tutto per salvarsi la vita. Ricordandoci che nel mondo nomadico e in subbuglio di oggi, tutti siamo a rischio di perdere qualcosa da un istante all’altro. Condannati a inseguire, spesso senza ritrovarla, la felicità del tempo perduto, quando tutto era ancora intero, non intaccato, nessuno era colpevole, volavano gli aquiloni e si portavano i bambini a scuola, nessuno strappo, la vita un lieto mattino in cui ci si sveglia dal sonno pieni di slancio, ottimismo, ardore, prima che si produca l’inciampo, il corto circuito della Storia, quando tutto salta per aria, abitudini, quotidianità, affetti, paesaggi. Ricordarcelo, ogni tanto, può servire.
Fiona Diwan