In copertina: La Biblioteca della Fondazione CDEC nei nuovi spazi all’interno del Memoriale della Shoah. (foto di Nicolò Piuzzi)
Biblioteca, ricerca storica, archivio di testimonianze e fonti, digitalizzazione, osservatorio antisemitismo. È stata inaugurata la maestosa sede della Fondazione CDEC al Memoriale della Shoah. Si porta così a compimento un’opera architettonica e culturale di enorme valore per Milano. Un progetto grandioso, vent’anni di lavoro e raccolte fondi.
Ne parla l’architetto Annalisa de Curtis
Caro lettore, cara lettrice,
uno dei più importanti poli della ricerca storica sull’ebraismo italiano, la Fondazione CDEC, ha inaugurato la sua nuova sede milanese in piazza E. Safra accanto al Memoriale: biblioteca, film, archivi fotografici e testimoniali, Osservatorio antisemitismo e digitalizzazione… Insomma, il patrimonio di decenni di attività e di studio ha trovato una nuova casa all’ombra della Stazione Centrale. Un trasloco importante, laddove Binario 21 e CDEC potranno lavorare in maniera sinergica e certamente proficua, e così unire le forze. Stando attenti tuttavia a salvaguardare ciascuno la propria identità e specificità, schivando la tentazione di fagocitarsi a vicenda, mantenendo la barra sui due assi portanti paralleli: Memoria e Storia, Shoah da un lato, indagine a 360 gradi dall’altro con la relativa ricerca sulle fonti storiche e sull’intero corpus del mondo ebraico italiano (vedi pag. 34-37), ivi comprese le sue declinazioni più attuali, le sue ricadute sull’oggi (l’antisemitismo, i flussi migratori ebraici, la polifonia delle identità…).
A completamento di queste due importanti realtà – CDEC e Memoriale -, dovrebbe auspicabilmente andare ad aggiungersi un altro polo, quello dell’Associazione Figli della Shoah, col rilevante e irrinunciabile lavoro sulla didattica della Shoah portato avanti da anni.
Com’è noto, mentre stanno scomparendo gli ultimi testimoni diretti della Shoah, è sempre più urgente ripensare alle politiche della memoria con efficaci strategie e nuovi linguaggi, per trasmetterla in modo non museificato o inerte. Per evitare soprattutto le sue derive estetizzanti, la banalità emozionale e visiva, la sua deriva pop: cito, ad esempio, i fotogrammi della serie Hunters, del 2020, di Netflix o ancora le pagine di romanzetti di consumo che, tra una ladra di libri e un violino di Auschwitz, ruotano intorno alla Shoah.
Che dire di opere d’arte, mostre, installazioni, eventi, street art, stelle gialle e foto di Anna Frank in tutte le salse, che celebrano un’iconografia fuorviante su ebrei e Shoah, strumentalizzati e presi a simbolo di eventi e fatti che con loro non hanno nulla a che vedere? L’Irrapresentabile di Theodor W. Adorno sta diventando banalità iconica, paccottiglia da bancarella, notano da tempo sociologi e storici.
Come evitare allora che la post-memoria venga manipolata da una cultura visiva sempre più spregiudicata? Come raccontare la Storia alla generazione dei Millennials nati dopo l’11 settembre, che tende ad annegare la specificità della Shoah nella nebulosa indistinta dei tanti altri orrori, genocidi, persecuzioni, catastrofi, in un’indistinta marmellata storica? L’aggiornamento dei linguaggi del racconto della memoria rimane un problema attualissimo, resta solo da chiarire quale ruolo possano avere i social, gli influencer, i media; e che lavoro musei, memoriali e centri di ricerca ebraici possano svolgere in merito.
Diverso il discorso per il lavoro d’indagine storica, oggi che sono stati aperti gli archivi dell’Europa dell’Est. Da cui emergono le storie individuali non solo delle vittime ma anche dei carnefici o di coloro che hanno prosperato nella zona grigia della società civile stando a guardare. I testimoni passivi, quelli che non fecero nulla, i bystanders, gli spettatori, i gregari silenziosi. Come integrarli nella narrazione della Shoah? Che parte ebbero in quella vicenda di deportazioni? Un aspetto trascurato. Come scrive lo storico Saul Friedlander, gli archivi personali sono l’ultima frontiera, l’ultima, importante fonte, ciò che le famiglie, i nipoti e i bisnipoti hanno conservato, spesso vergognandosi di ciò che trovavano. Linguaggi, ricerca storica, nuovi archivi, didattica: tanti temi su cui c’è ancora molto da lavorare e da ripensare creativamente.
Fiona Diwan