La sinagoga di Kharkiv che non smette di fornire pasti ai profughi. Gli orfani di Zhitomir portati tutti in salvo in Israele. A Mariupol, mentre è già tutto pronto per il Seder di Pesach, 3000 ebrei bloccati nella città assediata.
Da Dnipro a Odessa, sotto i razzi russi: storie di fuga, solidarietà, speranza. Per ricordare che anche scappando si può brindare alla libertà.
Un reportage in esclusiva
Caro lettore, cara lettrice,
il destino ebraico è un eterno ritorno del rimosso, una memoria slacciata e continuamente riagganciata, sapere che se qualcosa è accaduto può ripresentarsi repentino e straniante come il ricordo di Amalek. Un ritorno del rimosso che è l’esito della perenne inimicizia tra i grandi eventi della Storia e la piccolezza dell’esperienza umana con le sue inascoltate tragedie che si srotolano sul filo dei decenni e dei secoli. Un’inimicizia che istupidisce la vita e fa del mondo una casa desolata. Vanifica le parole dei padri – custodi di memorie impallidite -, mentre incendia il presente dei figli con la loro febbre di vita tutta giocata nel bruciante divenire del qui e ora. Con l’ombra di quel passato dietro l’angolo, appena ieri, da cui sembra che nessuno mai impari niente. Un rimosso che vorremmo tutti fosse lasciato lì dov’è, nonostante il monito ebraico del Zachor!, ricorda! Perché ricordare è anche soffrire, riconoscersi; la memoria uno specchio di ciò che siamo, e stavolta tocca ai popoli d’Europa.
Sono pensieri che mi vengono in mente mentre chatto con Lena, la signora ucraina che per anni ha fatto da baby-sitter alle mie figlie, ormai quasi due decenni fa. L’Ucraina oggi sembra un surreale set cinematografico sulla Seconda guerra mondiale, mi scrive Lena, un paesaggio da incubo. Ma tutto è reale, la neve è sporca, il mare di Odessa è nero e buio, i calcinacci e le macerie sono piramidi alte dei metri, e «questa città non è più la mia: è il nostro mondo che si sta polverizzando sotto i razzi, è la mia casa che non c’è più e sono io che adesso torno a Milano senza niente, io che me n’ero andata quasi ricca, oggi ritorno con un trolley, uno zainetto e un sacco nero della spazzatura con dentro le mie cose, tutto ciò che mi resta», scrive Lena. Mesi fa, amici ucraini gioivano inorgogliti del loro nuovo centro ebraico costruito a Dnipropetrovsk, un palazzone tra i più grandi del mondo, fieri del fatto che tutti gli abitanti della zona facessero a gara per mandare i loro figli alla scuola ebraica, la migliore della regione, quando ancora l’invasione dell’Ucraina apparteneva alla categoria dell’impensabile. Avevano finalmente dimenticato la paura del passato, un terzo dei 90mila ebrei che ci vivevano nel 1939 era scomparsa nei campi nazisti e gli scampati erano tornati, incerti sul da farsi, se restare o partire, chi in Israele, chi negli Stati Uniti (oggi, a Dnipropetrovsk ne sono rimasti 15mila).
Scrive la studiosa francese Delphine Horvilleur nel suo prezioso Piccolo trattato di consolazione – Vivere con i nostri morti (appena uscito per Einaudi) che è proprio l’ebraismo a insegnare che «tutto quello che costruiamo con solidità finisce per logorarsi o sparire, mentre, paradossalmente, tutto ciò che è fragile, provvisorio, fallibile, lascia nel mondo tracce indelebili. La nebulosa delle esistenze passate non svanisce: soffia nelle nostre vite, ci conduce dove mai immaginavamo che saremmo arrivati». Ecco: davanti a ciò che accade in questi giorni nel cuore d’Europa, alla vigilia di Pesach, una festa di libertà (ma anche di amarezza), viene da chiedersi se questa memoria slacciata di noi europei non debba ricongiungersi, come per il destino ebraico, al proprio patrimonio di ombre e luci, in una presa di coraggio che sappia condurci al di là del deserto, “dove mai immaginavamo che saremmo arrivati”.
Fiona Diwan