Tristezza, rabbia, angoscia: sentimenti che rischiano di lasciare un segno profondo.
La memoria degli antenati che si risveglia, le ferite del passato che si riaprono. Come reagire
al trauma e tornare alla vita? Mettendo in moto meccanismi di resilienza, allenando il cervello, costringendosi a “fare” e a condividere con gli altri. O anche ricorrendo a metodiche scientifiche e psicologiche specifiche. Rispondono medici, neuroscienziati e psicoterapeuti
Caro lettore, cara lettrice,
“non sopporto quest’atmosfera di isteria che scorre nel mondo”, scriveva Eugenio Montale in una lettera indirizzata a Salvatore Quasimodo, datata 1930. Una frase che colpisce, nella sua semplicità, ieri come oggi.
A lenire l’inquietudine non bastano le parole taglienti pronunciate dal filosofo Jurgen Habermas sull’importanza di “preservare la vita ebraica in Europa e sul diritto di Israele a difendersi”. Non bastano gli appelli di scrittrici Premio Nobel come Elfriede Jelineck (“… vediamo solo il fumo nero che vola e l’orrore che rimane” sulle macerie di Be’eri). Non bastano le standing ovation tributate al coraggio della francese-iraniana Abnousse Shalmani che grida «Ça suffit!» contro la colpevole ipocrisia dell’Europa e contro chi tentenna nella condanna del terrorismo islamista (un discorso memorabile pronunciato dal podio del Prix de la Laicitè 2023, un premio che la scrittrice Shalmani ha dedicato alle 1400 vittime e ai 240 ostaggi nelle mani di Hamas). E ancora, non sono bastate le dure prese di posizione del cancelliere tedesco Olaf Scholz e del suo vice-cancelliere Robert Habeck (“la tolleranza non può tollerare l’intolleranza”, “bruciare le bandiere israeliane è un reato così come lo è lodare il terrorismo di Hamas”).
Le loro parole non sono sufficienti a confortarci, a depotenziare quanto ciascuno di noi sta sperimentando, il senso di essere precipitati in un universo parallelo e distopico, un pianeta alla rovescia in preda a una vertigine autodistruttiva degna dei racconti più cupi di Cormac McCarty. Come immaginare il revival odierno di Osama Bin Laden diventato un personaggio-mito per gli under 25 americani (“ci ha aperto gli occhi su un Occidente colpevole di ogni nefandezza”, dicono)? Come accettare, oggi, la messa alla berlina degli studenti ebrei e israeliani nelle università americane? O ancora l’indignazione isterica con cui si parla di Israele e dell’ebreo-quintessenza-del-suprematismo-e-del-privilegio-bianco? E la vergogna del boicottaggio delle università israeliane, le accademie americane ed europee invischiate in un parossismo ideologico di condanna a Israele, che considera lo Stato ebraico il campione del colonialismo bianco? Il tutto travestito da battaglia per la libertà, in nome dei diritti umani e dei valori democratici?
Il pericolo morale e materiale, concreto, si aggira tutto intorno, da sempre l’antisemitismo è intrecciato al totalitarismo, lo sappiamo. Stiamo attraversando un oceano di emozioni negative – amarezza, sospetto, senso di solitudine e d’insicurezza -, dove diventa importante mantenersi spiritualmente sani e mentalmente integri, preservare intatte la capacità reattiva e l’equilibrio. È in atto una guerra delle parole, parole che diventano armi (“apartheid, dal fiume al mare, genocidio…”), una guerra che si combatte nei salotti, sui media, nelle piazze del mondo, nei meme sui social, il tutto condito da una finta equidistanza, da un diluvio di argomenti illogici e da un rovesciamento di significati. Forse allora dovremmo pensare a stilare un Libro Nero dell’Irresponsabilità, utile quando il vento della Storia tornerà a soffiare in altre direzioni: bisognerebbe fare una lista di tutte le parole irresponsabili e dei discorsi demonizzanti, con tanto di nomi e cognomi, di chi ha scritto cosa, dove e quando: che il veleno di quei linguaggi non venga dimenticato dopo, quando il mondo si risveglierà, pronto all’autoassoluzione.
Nel celebre saggio Come si diventa nazisti di William Sheridan Allen (Einaudi), lo storico sottolineava come i primi sintomi di una metastasi sociale fossero proprio la perversione del linguaggio e l’indifferenza sociale (quell’indifferenza tanto stigmatizzata da Liliana Segre), quel lavarsi le mani del destino del tuo vicino di casa, o dell’amico che magari hai frequentato fino a ieri e che oggi ti evita; in fondo, diceva Elie Wiesel, “ciò che fa più male alla vittima non è la crudeltà dell’oppressore ma il silenzio di chi ne è testimone”. Il silenzio che offende, che ferisce. Urge allora, ancor di più, mantenersi lucidi, spiritualmente sani, mentalmente integri.
Fiona Diwan
In copertina: illustrazione di Noa Kelner, concessa gratuitamente
come contributo al momento drammatico che Israele sta attraversando.