Folle oceaniche sul Monte Meron. La passeggiata di Ben Gvir sulla Spianata
e cinquantamila ebrei saliti sul Monte del Tempio nel 2022. Infine, un milione di israeliani affluiti al Kotel a ottobre, per Sukkot. Cifre record, mai viste. Frutto di una spinta redentiva
e messianica come risposta a un’instabilità sociale sempre più acuta. Questo il terreno
in cui affonda le radici il nuovo governo. Ma di che cosa parliamo quando diciamo
“nuovo nazionalismo religioso”? Per capire, ascoltiamo le parole dei suoi stessi leader
Caro lettore, cara lettrice,
l’idea del naufragio ha sempre abitato il destino ebraico, naufragio individuale, culturale, sentimentale e di identità, seguito spesso da nuovi approdi su lidi incogniti e inospitali. Non sfugge a questa logica la vicenda di Erwin Blumenfeld, artista e maestro della fotografia del XX secolo, nato a Berlino (1897-1969) in una famiglia della buona borghesia ebraica, espatriato a Amsterdam dove vive per 17 anni, poi in fuga a Parigi nel 1936, internato in un campo a Vichy e finalmente sbarcato a New York nel 1941. Blumenfeld approda alla fotografia per caso, dopo ripetuti fallimenti imprenditoriali e bancarotte, chiamato a mantenere tre figli e una moglie nata ricca ma che non lo è più, Lena Citroën (quella delle automobili). Stenti, umiliazioni, indigenza, business sbagliati: insomma, una vita di espedienti sembra perseguitare Blumenfeld.
Fino alla svolta. Sarà il suo animo inquieto, libero, sperimentale a salvarlo. Alla scoperta di sé e del senso dell’esistenza, sulla strada tortuosa che si cerca di inseguire per arrivare a se stessi. Distante dallo stile burroso dei ritratti fotografici alle signore altoborghesi dell’epoca, lontano dalla pasticceria artistica del suo tempo, in America Blumenfeld diventerà l’audace e innovativo interprete della bellezza statunitense, dell’american dream in un mondo più aperto e arioso. Da Parigi porta con sé, in valigia, l’estetica dadà-surrealista, ha capito che “l’Arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”, come scrive Adorno: per questo solarizza le fotografie, impara da Man Ray e dalle sue immagini sovraesposte, sposa una visione più surreale e grottesca della realtà, immortala già nel 1933 (!), in un fotomontaggio agghiacciante, entrato nel mito, l’immagine di Hitler costruita su un teschio. Una mostra a Parigi, al Museè de l’art e de l’histoire du Judaisme (fino al 5 marzo), ne celebra oggi il genio e i clic leggendari, 180 fotografie di colui che diventerà non solo un venerato artista d’avanguardia ma il fotografo del bel mondo wasp, una star internazionale, il ritrattista delle dame e delle dive – da Grace Kelly a Jean Patchett – autore di leggendarie copertine per Vogue America, Life, Harper’s Bazaar.
Dicevamo che Blumenfeld è un expat abitato dai vecchi traumi, umiliazioni, orrori vissuti prima del 1941. Un umiliato e offeso arrivato alle soglie della disperazione e inciampato nel successo per caso.
Come per Blumenfeld, chi non ha sperimentato forme di naufragio una volta nella vita, in un modo o nell’altro? I flutti del vivere ci sbattono sugli scogli di paesi inospitali, dentro nuove geografie, nuove mentalità e usi, in nuovi luoghi dell’anima: naufraghi sentimentali e emotivi, naufraghi scagliati, fradici e umidi, su spiagge oscure, in preda a ancestrali paure. La paura di chi è arrivato in una terra che non conosce, che non sa come verrà accolto, con l’angoscia di non sapere dove si è finiti perché spesso anche i luoghi più civili e gentili, quando si tratta di accoglierti, si dimostrano inospitali e bruschi per chi da straniero arriva privo di amici o di guide.
Così è stato per i miei antenati sefarditi – espulsi o fuggiaschi nel Mediterraneo dei secoli passati -, per i miei genitori, per i miei compagni di classe alla Scuola ebraica, e per moltissimi di noi, ebrei di Milano, ashkenaziti, mediorientali, nord-africani e persino italiani, in alcuni casi. Tutti un po’ naufraghi, via da miseria o conflitti, da sogni e speranze svanite. Come per Erwin Blumenfeld, dotati di un’ostinata capacità di ricordo e di resistenza. E dietro l’angolo, inaspettata, una diversa e a volte più benevola strada.
Fiona Diwan