Le questioni sul tappeto dell’attualità israeliana oggi, i rapporti tra mondo religioso e mondo secolare, le radici, l’identità ebraica, l’educazione nelle scuole… Parla Rav David Lau, tra le massime autorità religiose d’Israele e dell’ebraismo mondiale, 39° discendente di una grande dinastia ashkenazita e figlio
di una leggenda vivente, Rav Israel Lau, sopravvissuto alla Shoah
Caro lettore, cara lettrice,
da tempi immemorabili la sensibilità ebraica ha avuto ben chiaro il concetto di eredità emotiva, ovvero dell’importanza non solo di fare i conti con il ruvido tessuto dei traumi del passato ma anche con il velluto e la seta delle felicità pregresse. E di partire proprio dalle emozioni sperimentate fin da bambini per ancorare i comportamenti, definire le ritualità e puntellare il bagaglio dell’identità. Eredità emozionale e emotiva: non solo quando ahimè parliamo di ferite provocate dagli accadimenti dolorosi della storia ebraica o individuale (fughe, persecuzioni, lutti e perdite), trasmesse nelle pieghe dell’inconscio famigliare attraverso un misterioso Dna della memoria.
Non solo l’eterna trasmissione della sofferenza ma anche un’eredità emotiva legata alla capacità che il Bene ha di tramandarsi nella catena delle generazioni e soprattutto nel coltivare un’interiorità che sappia accogliere la scintilla divina di cui ciascuno è portatore (il concetto è squisitamente chassidico, ne parla Martin Buber ne Il cammino dell’uomo, Einaudi). Perché anche l’amore si eredita, ed è parte del nostro “gruzzolo” affettivo di partenza, onde meglio investire le nostre risorse e capacità. Quest’ultimo aspetto ciascuno di noi può sperimentarlo nel susseguirsi delle festività ebraiche, da Sukkot a Purim, a Pesach soprattutto. Non si tratta di evocare solo la valenza storico-religiosa o simbolica di queste festività ma di essere chiamati a scomodare tutto il dispositivo emozionale di cui siamo eredi, a sollecitare le corde emotive profonde con un’esperienza festosa e attualizzata che non sia una replica pedissequa di anno in anno, quanto uno psico-dramma da rivivere nella cangiante mutevolezza del nostro Io che si trasforma e cambia.
Un appello radicale alla necessità di sperimentare tutto. Ce lo ricorda oggi Eredità (Giuntina), ultimo romanzo dell’autore brasiliano Jacques Fux, scrittore che dà voce a tre donne legate dal vincolo generazionale, una nonna, una figlia, una nipote, e alla domanda che ciascuno si è posto almeno una volta nella vita: che cosa accade alle generazioni future, ai figli e ai nipoti di chi sopravvive a traumi terribili? La sofferenza psichica – o la felicità – si trasmette? E visto che la risposta è sì, come uscirne, come spezzare la catena del dolore?
Sono domande su cui s’interrogano da anni le neuroscienze, l’eredità sotto pelle, senza parole e tramandata nel silenzio, nell’aria che si respira, nel corpo a corpo con ricordi che non sappiamo di avere. Il passato agisce nell’ombra, si sa. L’eredità a volte risiede nelle cose che non sono illuminate e che non si raccontano. Non a caso ne parla adesso anche una studiosa israeliana, Galit Atlas: «dentro di noi alberga materiale emotivo appartenente ai nostri genitori e nonni: tratteniamo perdite che appartengono a loro e che non sono mai state pienamente espresse», scrive la studiosa in L’eredità emotiva (Raffaello Cortina Editore). I segreti di famiglia vivono dentro di noi anche se non sappiamo quali sono. Sentiamo questi traumi anche se non ne abbiamo consapevolezza. Coloro che amiamo e che ci hanno preceduto vivono dentro di noi: i loro sogni, i loro ricordi, le loro esperienze plasmano la nostra vita e a volte la incatenano, e l’unico modo per accoglierli è farne patrimonio, è non negarli ma riattraversarli per uscirne, come in un intimo deserto, come in un fecondo e personale Mar Rosso. Perché, in definitiva, ogni eredità può essere una ricchezza.
Fiona Diwan