Come difendersi da piazze, atenei e media avvelenati

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n° 6 - Giugno 2024 - Scarica il PDF n° 6 – Giugno 2024 – Scarica il PDF
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Università e quartieri che si infiammano, piattaforme e giornali allineati al mainstream anti-israeliano, silenzi ambigui e pericolosi. Com’è mutata l’immagine di Israele
nei media? Ne parliamo con Federico Rampini e Raffaele Genah. Perché in Europa,
in America e in Occidente, gli ebrei si sentono sempre più nel mirino, come ci mostra l’artista Richard Kenigsman (autore dell’immagine di copertina)

 

 

 

 

Cara lettrice, caro lettore,
a volte è importante guardare con i propri occhi ciò che accade, vedere da vicino, essere lì; non basta essere informati, è il bisogno di essere testimoni diretti che ci spinge a toccare con mano gli accadimenti, anche se questi non ci piacciono. E così sono andata all’Università Statale, ho accettato il malessere che sapevo sarebbe arrivato nell’attraversare quel meraviglioso cortile del Filarete dove ho studiato da ragazza. Ho provato per anni un senso di soffusa nostalgia per quei chiostri in cotto sotto i quali si preparavano gli esami. Probabilmente, da oggi, non mi capiterà più.

I cortili delle università italiane sono luoghi unici, quasi sacrali, spazi sospesi e fuori dal tempo, con portici e loggiati che ospitano l’industrioso andirivieni di giovani indaffarati, concentrati nel costruire il loro nuovo Sé di domani. Eppure, le università possono anche diventare luoghi loschi, avvelenati, cattedrali di un falso sapere dove salgono in cattedra cattivi maestri e studenti dal pensiero debole. Non è una novità, è accaduto molte volte nella storia, negli anni Trenta in Italia e in Germania con i giovani che danno alle fiamme gli scranni dei professori indesiderati o che aggrediscono i propri compagni. È accaduto negli anni Settanta, negli scontri studenteschi di colori politici opposti, gli Anni di Piombo. All’epoca, il filosofo francese Raymond Aron diceva che il marxismo era l’oppio degli intellettuali; oggi potremmo parafrasare dicendo che è l’antisionismo a essere diventato l’oppio degli intellettuali. Inoltre, si è spesso pensato che le università fossero l’incubatore del nuovo: vero, peccato che il nuovo non coincida sempre con il buono.

Volendo osservare ancor più da vicino, ho colto l’occasione per passare anche tra i leggendari colonnati del Bò, la gloriosa università di Padova, e poi anche a Bologna, nel più antico degli atenei italiani, nel cortile di fronte al rettorato dell’Alma Mater. Stesso spettacolo. Tre università storiche oggi occupate da tendopoli e capannelli di studenti, con ovunque striscioni Free Palestine, Studentifada, Decolonizzare la Palestina, Basta genocidio, Israele boia… Vederlo con i propri occhi non è come leggerlo, dicevo. Vedere fa stare male ma rende più coraggiosi e lucidi. Ho visto i bivacchi, i ragazzi riuniti in cerchio seduti per terra a discutere della malvagità dell’uomo bianco, dell’Occidente colonizzatore e di Israele suo epigono; ho ascoltato le discussioni mentre facevo finta di essere una turista, ho sentito la distorsione della realtà soccombere tra le pieghe delle kefieh avvolte intorno al collo…

Quello che ho visto e che preoccupa è l’aria da resa dei conti che sembra vibrare ovunque, un vento incendiario che soffia sulla società civile, questo crepitio di fogli che bruciano nei cortili degli atenei europei e americani (vedi servizio a pag. 6), un modo manicheo di dividere il mondo, laddove l’occidente ha sempre torto, in cui si confonde l’oppresso con l’oppressore e viceversa, e in cui può capitare che l’antisemitismo diventi una sofisticata forma di antirazzismo. Un’epoca di nuovi puritani e di caccia alle streghe, una cultura della colpevolezza che ama sanzionare se stessa, “l’orrendo occidente e l’abominevole uomo bianco” responsabili di ogni nefandezza, schiavismo, oppressione, sfruttamento, colonizzazione, sopruso… In cerca di nuove cause per le quali lottare, consapevoli che gli altri sono sempre meglio di noi, ecco allora rispuntare la fascinazione per un’età dell’innocenza non contaminata dall’immoralità e dal cinismo dell’occidente, eccoci a inseguire il mito pericoloso del Buon selvaggio di Rousseau, i poveri, i reietti, i palestinesi, purché si presentino con la patente degli oppressi.

Guardando le tendopoli, penso che questo sia un tempo di scelte. E le scelte, si sa, sono sempre difficili, perché implicano la rinuncia a qualche cosa. Dicono i maestri dell’ebraismo che scegliere è “un pianto cattivo”, in ebraico la parola scelta si dice bechirà (scomponendo il lemma, bechì, pianto, e , cattivo). Disperazione e urgenza di reagire, voglia di combattere e desiderio di fuggire, rispondere o tacere, aspettare che passi la tempesta o prepararsi ad affrontarla… Comunque sia un pianto cattivo. Noi che cosa sceglieremo? Ancora non lo sappiamo.

 

Fiona Diwan