Dimmi che charoset fai e ti dirò chi sei: ricette, usanze, canti, riti famigliari.
Di generazione in generazione, per la sera del Seder le varie identità ebraiche tramandano i loro usi millenari, dal Libano alla Russia, dall’Egitto all’Ungheria, passando per Bukhara e, ovviamente, per l’Italia: ecco il racconto
di una delle feste di gioia e libertà più intense del nostro calendario
Caro lettore, cara lettrice,
ci sono figure luminose la cui storia fa abbassare gli occhi in segno di rispetto, di silenzioso ritegno. È il caso di Yitzhar Hoffman, uno degli ingegneri il cui talento ha contribuito a costruire la nuova Biblioteca Nazionale d’Israele a Gerusalemme, uno degli edifici più straordinari degli ultimi anni in fatto di architettura, bellezza, innovazione. Hoffman ha 36 anni, è sposato con due figli piccoli, il 7 ottobre è tra i primi a catapultarsi al kibbutz Be’eri dove salva un numero innumerevole di persone. In un video, si scuserà per non essere riuscito a fare di più, per non essere arrivato prima. Come riservista e ufficiale dell’unità Shaldag dell’IDF, si presenta e entra a Gaza, viene ferito, torna a casa, guarisce, ritorna a Gaza, dove perde la vita il 31 gennaio 2024. La Biblioteca Nazionale emetterà un comunicato dolente e ufficiale, nel ricordo della sua originalità e unicità sul lavoro; tutta la stampa israeliana racconterà la sua storia. Hoffman non è un militarista, è un tipo riservato, una figura impegnata nel sociale, un soldato e padre di famiglia che crede nella convivenza con gli arabi e nella ricomposizione dei conflitti che lacerano la società israeliana. Per lui non ci sarà un ritorno dell’eroe. Il Padreterno chiama a sé i migliori, dice l’ebraismo.
C’è poi la storia, nota, di Yussef Ziadna, un beduino arabo-israeliano di 47 anni che la mattina del 7 ottobre ritorna sul luogo del festival Supernova e riesce a caricare sul suo pulmino trenta giovani, salvandoli dal massacro; o ancora la vicenda, celebre, di Inbal Liberman la cui intraprendenza salverà il kibbutz di Nir Am dal destino di morte. Episodi numerosi, che non si contano, atti di ordinario coraggio, gesti eroici quasi sempre inconsapevoli, l’impulso a obbedire a un codice morale che chiede di non tirarti indietro.
Noi, da qui, assistiamo invece a uno spettacolo ben diverso: il tramonto degli eroi e l’alba fulgida dei vittimisti. Viste da qui, queste storie sembrano quasi inverosimili, irreali. Abituati come siamo al vittimismo e al piagnisteo dei finti-oppressi non siamo più capaci di vedere le cose per quello che sono, abbiamo sostituito gli atti di coraggio e di abnegazione con la lagna di chi veste i panni dell’umiliato e offeso, le vere vittime oscurate dai vittimisti, tutti smaniosi di prendere il posto degli ebrei sul podio degli oppressi, tutti scatenati nella corsa al perseguitato perenne, nella gara a chi vincerà il premio della vittima che si prende tutto il palcoscenico. “Me misero, me tapino!” : una lamentatio sempre redditizia, altro che eroi, altro che prove di ardimento.
Ma il vittimismo è da sempre l’amico fraterno dell’indignazione. E dietro l’indignazione non si nasconde forse un elemento violento, violenza mascherata da spirito di giustizia? Il vittimismo è aggressivo e bellicoso: più ci sentiamo offesi e feriti più ci sentiamo giustificati nell’aggredire coloro che sono additati come nemici. Soffro quindi sono: ecco allora oppressori che si fingono vittime, persecutori travestiti da perseguitati, tutto e il contrario di tutto in questo nostro babelico tempo in cui sono andati smarriti i terreni condivisi e i codici morali comuni.
Sono parole e riflessioni, queste, che prendo in prestito dall’ultimo, folgorante saggio del filosofo francese Pascal Bruckner (Je souffre donc je suis – Portrait de la victime en heros, Grasset), in un’interessante analisi dei nostri tempi indignati, ipersuscettibili, polarizzati, dove ciascuno si sente in dovere di sentirsi abusato e oggetto di un torto subito. È l’età del “come osi?”, del diritto di opprimere gli altri in nome delle offese subite. Un tempo che ha ucciso gli eroi. Il filosofo francese ci parla di un dolorismo che valorizza la figura del martire, dell’epoca del narcisismo vittimistico, di uno sfacciato esibizionismo della sofferenza.
Forse, allora, in prossimità della festa di Pesach, andrebbe ricordato chi alla sofferenza ha voluto reagire, ieri come oggi: ricordare chi decide di seguire una strada di impervia e rischiosa libertà, un desertico sentiero degli eroi, fatto di abnegazione e di silenzio.
Fiona Diwan