Provenza ebraica: alla ricerca della convivenza (perduta)

2024

 

n° 7/8 - Luglio/Agosto 2024 - Scarica il PDF
n° 7/8 – Luglio/Agosto 2024 – Scarica il PDF

Esplorando vicoli, antiche sinagoghe, juiverie misteriose e recenti memoriali, si scopre la ricca storia, dal Medioevo alla Seconda guerra mondiale, degli ebrei in Provenza, dove hanno lasciato un’impronta duratura, nonostante le ripetute espulsioni
e discriminazioni. Il viaggio di Kesher, sotto la guida di Rav Beniamino Goldstein e di Cyril Aslanov, ha visto una partecipazione straordinaria, che dimostra un forte desiderio di aggregazione e un rinnovato senso di appartenenza alla storia del popolo ebraico

 

 

 

 

Cara lettrice, caro lettore,

per costruire un nemico ci vuole abilità, feroce determinazione, denaro. Avere un nemico fa comodo, è utile, e quando non c’è occorrerebbe inventarlo. Un nemico non sorge dal nulla, non è paranoia, è l’esito di un’architettura, è la canalizzazione di un bisogno sociale nonché la pietra angolare della costruzione di qualsiasi potere.

Un tema caro questo allo storico Carlo Ginzburg che ben lo argomentò parlando dei lebbrosi, delle streghe e degli ebrei nell’Europa dal Quattrocento al Settecento, nel suo celeberrimo saggio Storia notturna (Adelphi). La costruzione di un nemico è necessaria al gruppo ed è spesso il cemento delle società in ogni tempo e luogo, che si tratti di tribù, stati, nazioni.

Ovvio, nulla di nuovo, direte voi, e del resto ben lo avevano capito filosofi e scrittori, da Cicerone in poi passando per Tacito, su su fino agli illuministi, a George Orwell e Sartre. Chi non ha un nemico non esiste, non è nessuno. «Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro», diceva Umberto Eco arringando gli studenti dell’Università di Bologna, nel maggio 2008 (testo pubblicato da La nave di Teseo, Costruire il nemico): Eco parlava in quelle stesse aule dove oggi campeggiano gli striscioni proPal, e dove l’unica narrazione consentita sembra essere quella che vorrebbe demonizzare Israele.

In questi “tempi cangianti di dilemmi perduti”, anche lo studioso Sergio Della Pergola si interroga sulla locuzione “voi ebrei” quando in modo apparentemente neutro e innocente viene pronunciata da qualcuno. Un “voi” che non è la percezione dell’alterità e della differenza ma che implica già la separatezza, una forma di inimicizia, il nostro sguardo sull’altro che si fa ostile (Sergio Della Pergola, Essere ebrei, oggi, il Mulino).

Costruire il nemico, dicevo: ritrovo lo stesso tema anche in Estasi e terrore dello scrittore Daniel Mendelsohn (Einaudi), una mirabile ed eterogenea raccolta di saggi; in uno di questi scritti, Mendelsohn si sofferma sulla “cultura della vittimizzazione” tipica dei nostri tempi e su come questa si porti incollata alla schiena la necessità di costruire un carnefice, un nemico che infligge oppressione e sopruso. Come può l’attuale “trionfo della vittima” fare a meno di un oppressore, presunto o reale che sia? “Victima” ergo sum.

Costruire un nemico non è semplice, ci vuole applicazione, concentrazione, una fissità ossessiva dello sguardo che non perde mai di vista l’oggetto dell’odio. Il meccanismo è noto. Ne parlo perché sono mesi che leggo tutto quanto è reperibile sulla personalità del capo militare di Hamas, Yahya Sinwar, un uomo che ha speso tutta la vita a costruire, giorno dopo giorno, con zelante ossessione – a partire dal suo lungo soggiorno nelle carceri israeliane -, il suo nemico assoluto, cesellandone la “mostruosità”, inoculando una esecrabilità ebraica anche contro ogni evidenza empirica, visto che molti arabi di Gaza conoscevano per nome le loro vittime e lavoravano nei kibbutzim del Neghev. Ma tutto questo non contava nulla: se devi costruire l’odio devi cominciare con l’uccidere l’umano che alberga nel tuo nemico. Farne una schifezza, privarlo di qualsiasi umanità.

L’uomo che teneva prigioniera Noa Argamani e gli altri tre ostaggi liberati dall’IDF, non era forse un medico che di giorno curava e salvava vite umane e di notte si trasformava in un carceriere di Hamas? Forse per Ahmad al-Jamal, per Abu Nar (questi i loro nomi), Noa Argamani non era più solo una semplice ragazza ma una creatura perversa, uno scarafaggio da schiacciare. Esattamente come quell’insetto inventato da Kafka un secolo fa, Kafka che genialmente ribaltò lo stereotipo antisemita più disgustoso per farne l’oggetto di un capolavoro. Costruire un nemico può, a volte, avere esiti sorprendenti.

Fiona Diwan