Nelle sue aule hanno sfilato docenti, alunni, premi Nobel passati alla storia: da Albert Einstein a Yuval Noah Harari, da Ada Yonath a Gershom Scholem a Daniel Kahneman… Un’incredibile avventura del sapere che continua fino a oggi. Sorta nel 1925 per dare asilo alle grandi menti del XX secolo, la Hebrew University continua a essere un’eccellenza riconosciuta nel mondo
Cara lettrice, caro lettore,
il falso umanitarismo ha sulla coscienza più vite innocenti che molti conflitti veri e propri. Accade sovente, è l’ipocrisia umanitaria di chi depreca o minimizza, dal bar sotto casa e nel disinteresse generale, i regimi-canaglia in giro per il mondo – vedi il Sudan con i suoi 350 mila morti e 4 milioni di sfollati; vedi la Siria di Bashar el Assad durante la guerra civile con 600 mila morti e 8 milioni di sfollati; vedi lo Yemen con 150 mila morti e 10 anni di guerra civile e altre decine di conflitti tra il sud est asiatico e l’Africa -. Era già accaduto in passato che una fetta dell’opinione pubblica occidentale fosse dalla parte dei “macellai”: non è una novità, l’attrazione per il male – travestito da bene – esiste da sempre; è successo in secoli di storia, è accaduto ieri, quando alcuni partiti politici europei del dopoguerra inneggiavano a Josip Stalin, Mao Tse-Tung, Pol Pot. Accade oggi, con altrettanti politici occidentali che stanno dalla parte di Vladimir Putin, degli ayatollah iraniani…, i macellai di oggi che fanno sparire gli Alexej Navalny e i suoi avvocati, che uccidono le Anna Politkovskaja e i giornalisti oppositori, i macellai che hanno sulla coscienza il sangue di gay, di donne, di ragazze senza foulard, gente impiccata sulla pubblica piazza o ridotta al silenzio nel carcere di Evin a Teheran.
L’umanitarismo a buon mercato dei nostri tempi, quello che confonde gli aggressori con gli aggrediti, gli oppressi con gli oppressori, si sta rivelando un imbroglio ideologico epocale, un formidabile ammorbidente per il bucato delle coscienze; il pacifista umanitario è come colui che nutre il famoso coccodrillo, nella speranza di essere mangiato per ultimo.
Per quanto brutale possa essere un regime carcerario, nello Stato di Israele di oggi non è ancora accaduto che Marwan Barghouti muoia accidentalmente e venga dichiarato improvvisamente defunto per chissà quale motivo; non accade che un Yahya Sinwar, detenuto per anni nelle prigioni “sioniste”, sia sparito casualmente, ucciso da un chissà quale malore (è stato persino curato per un tumore).
Ci sono nazioni in cui i nemici e i peggiori criminali possono aspirare a rimanere in carcere senza correre il rischio di essere tolti di mezzo. Ci sono nazioni e luoghi (che si chiamano democrazie) dove certe cose non accadono. Con tutte le sue contraddizioni, i limiti e la rabbia di un anno devastante, va ribadito che Israele certe cose non le fa: non esulta sui cadaveri dei nemici, gli israeliani non scatenano caroselli di pick up come i miliziani in festa, mitra alla mano, dopo aver commesso una strage; non ostentano l’ebbrezza del sangue malgrado la guerra resti, senza nessuna scusante, uno sporco affare. Gli israeliani, pur di riportare a casa i rapiti, sono disposti ad accettare uno scambio iniquo e persino che nessuno si stupisca per questa abominevole sperequazione; Israele riporta a casa i suoi morti anche dopo decenni, si pone il problema di un’etica delle armi e di non diventare immorale o spietato nei confronti del nemico (sebbene il fatto di porsi il problema non significhi riuscirci sempre).
E ancora, mentre scrivo, non possono non colpire le immagini delle piazze arabe d’Europa, di piazza Saraya a Gaza City, della piazza di Tel Aviv, il loro tono emotivo così diverso. Colpisce il rilascio degli ostaggi organizzato come in un film: i terroristi di Hamas, che fino a ieri circolavano senza segni di riconoscimento per confondersi con i civili, ora improvvisamente riappaiono abbigliati da combattenti jihadisti in tuta mimetica, passamontagna, fascia verde sulla fronte. E intorno l’esultanza della folla araba festante. Certo, lo sapevamo, viviamo nella società dello spettacolo dove tutto diventa rappresentazione, dove “il reale è spettacolo e lo spettacolo è reale”, come profeticamente scriveva nel 1967 il filosofo francese Guy Debord: tuttavia, mai come ora questa evidenza colpisce come uno schiaffo, la consegna degli ostaggi organizzata come uno show, il tutto annegato in un’orgia di propaganda. In questo mese che dovrebbe essere quello della restituzione dei rapiti, il pensiero va ai morti, ai vivi, ai salvati. Va ai sommersi, a coloro che tornando alla vita avranno di che lottare con fantasmi e incubi, insonnie e sgomento nel tentativo di ristabilire un balance psichico accettabile. Va ai morti, ai vivi, ai salvati. Non al loro spettacolo.
Fiona Diwan