di Ugo Volli
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De Bortoli: «Gli eventi della Shoah meritano una memoria distinta e separata»
Le trappole della Rete. I pericoli della semplificazione. Il rischio che il 27 gennaio diventi un rito vuoto. Parla il Presidente del Memoriale della Shoah
Angeli, sogni e dybbuk per capire chi siamo
Caro lettore, cara lettrice,
siamo abituati a pensare alla nascita di Israele come a un miracolo della Storia e, ovviamente, è proprio così. Tuttavia, mi ritrovo a credere che il vero miracolo oggi, ancor più immenso se esistesse un sistema di misurazione dei miracoli, a soli 100 anni dal sorgere dei primi yishuvim nell’allora Palestina dell’Impero ottomano, è la rinascita di una lingua lussureggiante e rigogliosa, variopinta e spumeggiante come l’ebraico contemporaneo.
In meno di un secolo, in una manciata di decenni, è uscita dalla polvere e dai riccioli talmudici una lingua sapida che oggi ci lascia sbigottiti e incantati. L’ho sempre saputo, ma questa epifania mi travolge, autentico kairos mentre ascolto parlare David Grossman e Amos Oz, a Milano, per Bookcity. Non è la prima volta e già anni fa mi aveva colpito quel loro ebraico non più cristallizzato e museificato nel recinto dorato della ritualità e della preghiera. Questo ebraico oggi guizza e palpita davanti a noi, nelle parole di virtuosi che in meno di un secolo sono stati in grado di imparare a giocare con le sue sfumature più soffuse, fantasiose e segrete.
C’è un Midrash che mi viene in mente, riguarda la parashà di Miquez, quando Josef, ritto davanti al faraone, deve passare una specie di esame per diventare vicerè d’Egitto e la turbolenta e invidiosa corte di ministri del faraone, che lo vuole morto, reclama credenziali di nobiltà intellettuale per legittimarlo, ovvero gli richiede la conoscenza di ben 70 lingue. Ecco allora avvenire un miracolo: Josef sa interpretare i sogni, sa come tirare fuori l’Egitto dalla catastrofe economica e agricola ma non conosce i 70 idiomi richiesti a un futuro primo ministro. Ed è allora che il Midrash ci parla di una lettera del nome divino che si intrufola surrettiziamente nel nome di Josef (che diviene Jehossef), regalandogli il soffio potente e misterioso dell’energia creativa, l’ardore conoscitivo e la memoria necessaria per ricordare e fissare le 70 lingue.
Ecco: ascoltiamo le parole degli scrittori israeliani di oggi, leggiamo questi libri che sembrano “normali” ma che di normale non hanno proprio nulla, né la realtà o i destini di cui parlano, né la lingua che li nutre. E anche in questo caso sembra ci sia qualcosa di misterioso e poco spiegabile, come nella performance di Josef.
In questi giorni così difficili di sangue e attentati a Gerusalemme e in Europa, dove anche i luoghi di culto sono stati violati e le efferatezze portano la firma degli arabi-israeliani emuli dell’Isis, la sfida è proprio quella di custodire questo prezioso senso di miracolo e l’unicità dell’esperienza israeliana (ed ebraica), anche quando il prezzo ci straccia le vesti; e non smarrirsi dietro una “cultura della morte” che ci deprime o che reclama il “misura per misura”. Ancora una volta, sarà banale, viene da citare Ben Gurion e il suo “chi non crede nei miracoli non è realista”.
Fiona Diwan
“The Glass House Project” al Teatro Manzoni
di Roberto Zadik
Melodia e tragedia saranno strettamente legate fra loro anche il prossimo 24 gennaio quando l’orchestra del trombettista ebreo newyorchese Frank London si esibirà con il suo “The Glass House Project” al Teatro Manzoni dalle 11.