di Naomi Stern
Lo spinoso tema della conversione (ghiur in ebraico) è stato al centro dell’ultimo incontro di RavRock@Night che, ogni mese, grazie alla preziosa organizzazione di un team di giovani affiatati e volenterosi tra cui Daniela Haggiag, Giorgia Mamè, Ilan Boni e Margherita Sacerdoti, porta decine di giovani ebrei a riunirsi e a confrontarsi rispetto a temi di attualità trattati attraverso gli insegnamenti ebraici di Rav Della Rocca.
“Cos’è da un punto di vista filosofico la conversione? Cosa vuol dire convertirsi ad un’identità che non ti appartiene dalla nascita”. Queste le tante domande a cui Rav Della Rocca ha provato a dare una spiegazione. “La Halachà ha dato una sua propria definizione su chi è ebreo e su chi non lo è. Questa definizione ha guidato il popolo ebraico per migliaia di anni: è ebreo chi è figlio di madre ebrea o chi si converte all’ebraismo secondo le regole dell’Halachà”.
Una premessa è però necessaria: per definizione, il popolo ebraico non si è mai occupato di proselitismo, non c’è mai stata una tendenza ad evangelizzare il prossimo. Questo perché il proselitismo viene visto come una sorta di colonialismo culturale mentre nella religione ebraica c’è grande rispetto per tutte le religioni.
“Il popolo ebraico, che era il popolo più piccolo, ha stipulato all’origine un patto con D-o ma fare numero non è mai stato un must della nostra mission! – ha proseguito il Rav -. Aderire all’ebraismo significa aderire a un sistema religioso e culturale. La legge rabbinica insegna che il candidato al ghiur, chiamato gher, va dissuaso e non incentivato. Gli si deve chiedere il perché vuole entrare nel popolo ebraico, come mai dal non avere sanzioni sul cibo e sulla trasgressione dello Shabbat si vuole invece iniziare ad averle ed accettarle. Se la persona insiste ed è motivata alla conversione, le si insegnano le mitzvot e la si introduce in un cammino di accettazione. Quella del gher deve essere un’accettazione incondizionata”.
La serata è proseguita con la storia di Ruth, il personaggio biblico che è stato il paradigma della conversione. E’ stata proprio lei, infatti a dire le parole: “Il tuo popolo sarà il mio popolo. Dovunque tu andrai io andrò. Il tuo D-o sarà il mio D-o”.
“Il popolo ebraico, prima del Matan Torà (Dono della Torà), non esisteva, quindi la regola che per essere ebrei si deve avere la mamma ebrea è successiva. Con la Mishnà, nasce la giurisprudenza rabbinica in epoca romana. E poiché fin dall’epoca si diceva che Mater semper certa est, è probabile che la giurisprudenza rabbinica abbia risentito di questa legge”.
La serata è poi entrata nel vivo quando la discussione ha toccato l’argomento del Ghiur Katan, ovvero la conversione di bambini figli di madre non ebrea.
Il discorso legato alla conversione di un minore che, per la religione ebraica, è una persona che non ha ancora fatto il Bar Mitzvà, è strettamente legato a un fondamentale principio giuridico che dice che: “Si può agire per conto di un’altra persona in sua assenza solo in suo vantaggio e non in suo svantaggio”. Questo principio giuridico c’entra perché se il bambino non può darti il suo consenso, è il Beit Din ad assumere per lui la patria podestà ed a decidere quindi se diventare ebreo sia per lui un vantaggio o uno svantaggio.
“Diventare ebreo deve essere per il bambino un vantaggio, non un fardello da portarsi dentro. Il minore deve crescere in una casa in modo che non abbia uno stato di contravvenzione unica. Se il Beit Din suppone che il minore crescerà in una famiglia equipaggiata da un punto di vista ebraico, caratterizzata dalla Torà e dalle mitzvot, solo allora potrà procedere alla conversione giudicandola quindi come una cosa positiva per il minore stesso. Se invece si suppone che possa essere uno svantaggio, allora, seguendo la regola che dice che si può agire per conto di un’altra persona in sua assenza solo in suo vantaggio e non in suo svantaggio, non si può procedere con la conversione”.
Nel caso che sia un adulto a volersi convertire, sarà sua consapevolezza e responsabilità osservare lo Shabbat e le mitzvot. Se la conversione viene approvata, la persona viene accolta e le viene dato grande merito. All’interno del mondo ortodosso esistono tre tribunali rabbinici riconosciuti e, quando si deve procedere con un ghiur, ci sono tutta una serie di aspetti da prendere in considerazione prima di accettare o rifiutare la persona.
Ma come ci si deve porre di fronte al ghiur in un momento di crisi come questo?
“Oggi fare ghiurim all’acqua di rose non è di aiuto a chi si converte. Il percorso è complesso, il gher ha il diritto di essere equipaggiato e di entrare all’interno del mondo ebraico dal portone principale, e non dallo sgabuzzino. Procedere con il ghiur senza aver fatto le giuste valutazioni sarebbe come sfruttare la persona solo per accrescere il complesso demografico comunitario ma senza rispettare i suoi valori e la sua essenza. Prima di convertire qualcuno bisogna chiedersi se si sarà capaci di essere come una famiglia per il gher. Saremo in grado di accoglierlo durante le feste e lo Shabbat? Potremo amarlo e farlo sentire come un pezzo di noi stessi? Oggi questa Comunità è un modello ebraico e un punto di riferimento sociale, affettivo e di accoglienza? E se la Torà vede positivamente la persona convertita, è compito della Comunità che lo accoglie di non farlo sentire come un ebreo di serie B”.
La serata, conclusa a mezzanotte passata, ha lasciato molte domande ancora senza risposta ma è stata un’occasione di confronto di grandissimo interesse.