di Naomi Stern
Il primo appuntamento di RavRock@Night, il ciclo di lezioni tenute da Rav Roberto Della Rocca ai giovani dela Comunità, non poteva che cadere nei giorni tra Rosh Hashanà e Kippur, tra i più importanti dell’anno. L’argomento? Kippur, i diversi modi di vivere il giorno di digiuno e le ragioni per cui viene sentito così tanto dal popolo ebraico. Insieme a Rav Della Rocca ha animato la serata Stefano Jesurum, giornalista e opinionista del Corriere della Sera.
Dopo i saluti iniziali tra tutti i ragazzi e le presentazioni delle new entries, la lezione è subito entrata nel vivo con la spiegazione di Rav Della Rocca della differenza tra Kippur e le altre feste: “ Kippur è il momento dell’anno in cui le persone si mettono in una relazione profonda con il Creatore e tirano fuori tutto quello che hanno dentro e che hanno commesso nei suoi confronti. Quasi tutte le festività ebraiche sono in relazione con un significato storico. Kippur no: è il momento di riconciliazione tra noi e D-o”.
Secondo i dati presentati da Sergio della Pergola, importantissimo studioso di statistica, in Israele il picco più alto di osservanza si ha con la pratica della circoncisione, seguita dal Seder di Pesach e, solo per terzo, il digiuno di Kippur. Ma se Pesach è una festa familiare, in cui ci si ritrova in casa e si cena insieme, a Kippur si vedono molti ebrei perché tutti tendono ad andare al tempio.
“A Kippur – ha continuato Rav della Rocca – si vedono anche gli ebrei che non si vedono mai. Questo non è dovuto ad un fattore di importanza della festa. Basti infatti pensare che a Shabbat sono presenti 7 chiamate al Sefer mentre a Kippur 6 e durante le altre feste 5. L’ebraismo predilige infatti ciò che è costante e continuo, come la cadenza settimanale di Shabbat, rispetto all’eccezionalità.
Ma Kippur non è solo il giorno dell’espiazione o del perdono. Come mai a Kippur ci si scambiano gli auguri? Kippur è un giorno di festa, non di lutto e lo stato d’animo deve essere di gioia e serenità, nonostante la serietà e l’importanza del giorno.
Gli Yom ha’Kippurim sono i giorni dell’espiazione; all’interno è contenuta la parola Purim, la festa opposta rispetto a Kippur in cui è mitzvà bere e mangiare.
A Kippur sono state date al popolo ebraico le seconde tavole del patto. Il gesto di Mosè che, non a caso, non è considerato un santo ma un nostro maestro, è la dimostrazione e l’esempio di come si debba avere il coraggio di rompere i progetti che non funzionano.
Mosè ha avuto il coraggio di rompere le tavole, evitando così che gli ebrei adulassero il contenitore e non il contento. Si dice che tutti gli ebrei del mondo si portino dentro dei frammenti delle due tavole della legge che sono state rotte, anche senza esserne consapevoli. Kippur è un giorno considerabile come il lancio di un nuovo progetto.
Bar Mitzvà significa figlio della mitzvà. Ogni ebreo può spossessarsi dalla trasgressione ma non dai genitori. Il rapporto filiale tra gli ebrei e le mitvot rimane per tutta la vita; siamo figli delle mitzvot e possiamo sempre tornare verso di loro. Le porte della teshuvà son sempre aperte. A Kippur c’è il lancio di un patto nuovo con D-o e con la Torà.
La lezione è proseguita con la considerazione condivisa che a Kippur ci siano degli aspetti e dei legami talmente forti e innati che sono impossibili da spiegare razionalmente. Gli odori della cucina, il proprio posto al Tempio, le tradizioni familiari, sono tutti aspetti che testimoniano una fedeltà inconscia, impossibile da descrivere a persone che non l’hanno mai vissuta o provata.
Gli “ebrei del Kippur” sono importanti e non vanno scansati o rifiutati proprio perché all’interno di ogni ebreo è presente il patto, la potenzialità della Torà, una fiammella che, se potenziata, può diventare un grande fuoco. Non è un caso infatti che la grande sfida del Kippur sia il giorno dopo il digiuno: una forma di carburante che dovrebbe essere l’equipaggiamento per un anno intero.
La parola è poi passata a Stefano Jesurum che ha espresso la sua idea di come ogni ebreo possa essere tale a modo proprio, senza etichette che, proprio per il loro essere etichette, sono del tutto vane.
Rav Della Rocca ha proseguito la serata approfondendo l’analisi del giorno di Kippur:
“Credo che ogni ebreo che crede nel Kippur percepisca nel profondo un particolare rapporto con una trascendenza, con qualcosa che va al di là. È un giorno in cui il popolo ebraico raggiunge una sorta di soprannaturalità, del trascendente, del metafisico. Ogni ebreo è inserito all’interno di un progetto collettivo e c’è una tensione religiosa che non può prescindere da un elemento trascendentale e di sacralità. Kippur è la festa più religiosa del popolo ebraico in cui c’è la forza della legge rabbinica. Non è infatti scritto da nessuna parte nella Bibbia che a Kippur si debba digiunare. E’ scritto invece “Affliggerete le vostre persone”. Una frase che per ciascuno ha un’interpretazione diversa. Ed è la tradizione rabbinica che ci dice di digiunare.
Il discorso non è credere o non credere in D-o. D-o è una esperienza di conoscenza intima che ogni persona vive attraverso una prassi, la spiritualità ed elevazione dell’anima. E’ il contatto con il trascendente, con qualcosa di altro da te. Non si può togliere alla Torà la sua componente celestiale; diventerebbe sennò come un bel libro di poesie. Alla stessa maniera non si può togliere la Torà dal cielo che diventerebbe un mero oggetto astronomico. Ogni ebreo dovrebbe essere convinto che la Torà viene dal cielo”.
La lezione si è conclusa con la spiegazione di cosa sia la Teshuvà secondo Maimonide. In primis è l’abbandono del peccato; la convinzione che non si cadrà più in un determinato peccato. Il peccato non va solo riconosciuto ma è fondamentale confessarlo con le labbra, utilizzando il fiato e la voce. La prova finale che la Teshuvà è stata sincera e autentica si ha solo quando ritrovandosi nella stessa situazione non si ricade più nel peccato.
Chatimà Tovà!